giovedì 23 marzo 2017

Per non avere un futuro alle spalle

di Renzo Balmelli 

SFIDA. Adesso tocca alla Francia. Con una metafora sportiva le elezioni olandesi sono state i quarti di finale della delicata partita per l'Europa. Fra poco a Parigi andrà in scena la semi­finale di primavera sul cui esito gravano non poche incognite. Detto così sembra un paradosso, ma il Vecchio Continente per non avere un futuro alle spalle deve riconciliarsi col suo passato, alla spinta ideale del 1957 che lo fece rifiorire. Per contrastare l'avanzata delle forze anti sistema e neo fasciste bisogna badare al sodo, non al soldo, al risultato utile che magari farà torcere il naso ai puristi del calcio spumeggiante, ma senza il quale la finale di settembre in terra tedesca potrebbe riservare amarissime sorprese. Come negarlo, d'altronde: i disagi e i bisogni sono reali e per non perdere la sfida cruciale servono idee nuove e leadership autorevoli, appunto come quelle raccolte sessant'anni fa attorno al Trattato di Roma che sancì la nascita della Comunità europea e che oggi come ieri rappresenta l'unica alternativa al salto nel buio.

ODORE. “Pecunia non olet”. Fino a che punto si è disposti a scendere a patti con la propria coscienza pur di intascare tanti soldi facili è una questione che ha antiche radici, ma sempre attuali. Malgrado lo sdegno sollevato dal muro al confine col Messico che Trump ha collocato ai primi posti del suo programma , sono tante le imprese che si sono lanciate nella gara degli appalti per portare a termine la barriera di cemento che avvilisce la storia dell'umanità. A concorrere non sono dieci e neppure cento, bensì 640 le ditte pronte a mercanteggiare i diritti della grande muraglia in salsa repubblicana senza provare nessun scrupolo di ordine etico e morale. Proprio come accadeva nella corrotta Urbe di Vespasiano con la tassa sulle latrine che ingrossava l'erario e dalla quale ebbe appunto origine l'espressione del denaro che non ha odore. O che forse ne ha troppo e piuttosto cattivo considerata la provenienza.

IRONIA. Felicità. Tutti la vogliono, tutti la inseguono. A qualcuno è venuta addirittura la singolare idea di misurarla usando più o meno gli identici criteri coi quali si annotano le oscillazioni della borsa o gli exit-poll elettorali. Grafici alla mano, scienziati e studiosi hanno provato a elaborare una sorta di termometro della felicità mondiale denominato “edonimetro” che lascia piuttosto allibiti. Come si fa, infatti, a inquadrare in una tabellina un sentimento che in realtà è uno stato d'animo volubile, scandito da molteplici circostanze, e quindi impossibile da valutare con il calcolo delle probabilità? Tant'è vero che l'Italia situata attorno al quarantesimo posto di una precedente classi­fica, balza invece al primo di un'altra graduatoria in cui la valutazione fa perno attorno alle aspettative di vita in buona salute, considerate un parametro indispensabile per stabilire quanto si è felici. I ricercatori sono ovviamente consapevoli del fatto che la felicità non è facile da definire e che ogni risultato può essere utilizzato e interpretato con significati diversi. Magari mettendoci quel pizzico di ironia che non guasta mai e aiuta a strappare un sorriso.

OMERO. Parlare in un modo, scrivere in un altro. In letteratura, da Beckett a Nabokov, da Conrad a Koestler, non mancano gli autori che hanno dato il meglio di se esprimendosi in una lingua diversa dalla loro. Anche il premio Nobel Derek Walcott scomparso recentemente, appartiene alla categoria degli autori che pur senza rinnegare le origini si è spinto oltre la visione restrittiva di poeta caraibico. L'Omero dei nostri tempi aveva scelto di scrivere in inglese nel solco di una dedi­zione multiculturale impastata di identità multiple. Un inglese, il suo, limpido ed elegante che ne accentua l'universalità e lo colloca ai primissimi posti tra gli scrittori del Novecento. Oltre alla centralità della lingua, dalle sue opere emergono gli interrogativi di fondo sul tema dell'appartenenza che proprio ora, per motivi non sempre nobili, sta tornando di attualità e al quale Walcott rispose a modo suo dichia­rando di avere una sola nazione: l'immaginazione.

PROFETA. A novant'anni se n'è andato Chuck Berry, rivoluzionario, turbolento e spesso inguaiato alfiere del rock'n'roll di cui è considerato il profeta prima che sulla scena comparissero Elvis Presley e altri di­scepoli. Chi ha visto Pulp Fiction certo non ha dimenticato una delle scene cult di un film altrettanto cult. A interpretarla sono Uma Thur­man e John Travolta, lei a piedi nudi, lui coi calzini neri, che danzano sulle punte muovendosi al ritmo di “You never can tell”, omaggio del regista al leggendario chitarrista. Quel folk libertario travolse l'Ame­ri­ca ancora segregata e diede voce alla ribellione giovanile che scan­da­liz­zò i parrucconi benpensanti dell'epoca avvinti ai loro privilegi e in­ca­paci di capire, pur nella levità del mitico twist di Pulp Fiction, che la vita cambiava e che, per dirla con l'autore, "ti mostrerà cose che non po­trai mai raccontare", lasciandoti a bocca aperta. Come in effetti ac­cad­de e accade ancora ai nostri tempi non meno inquieti.