martedì 28 giugno 2016

Speriamo ora, almeno, che Jo Cox non sia morta invano

di Renzo Balmelli 

 

SACRIFICIO. Quando questa edizione dell'ADL sarà sotto gli occhi dei nostri affezionati lettori, il Regno Unito starà ancora votando fino alle dieci di sera per decidere il suo destino in seno all'Europa, col conforto dei sondaggi che segnano un netto recupero del NO al Brexit. I risultati arriveranno nel corso delle ore successive, al termine di quella che si preannuncia come una lunga notte elettorale di grande intensità. Tutte le persone di buon senso, le persone ragionevoli che non sono cadute nella trappola della dissennata propaganda anti UE, sperano che i pronostici, avvalorati anche dai bookmaker che raramente sbagliano, trovino conferma nelle urne. Sul verdetto finale peserà sempre comunque il ricordo doloroso della giovane deputata uccisa per le sue idee da uno squilibrato che forse lo era ma che è stato reso ancora più pericoloso dal fanatismo e dall' orribile atto di odio xenofobo ed eurofobico disseminato da coloro che per un voto venderebbero l'anima. A dispetto delle previsioni tutto è ancora possibile, ma se il disastro sarà evitato, è auspicabile che anche gli avversari abbiano almeno il pudore di riconoscere che la morte di Jo Cox, parlamentare laburista, non è stata inutile, ma che il sacrificio di questa donna piena di sogni e di obbiettivi sarà valso a salvarci dalla rovina.

 

SCENARIO. Per certi versi anche le recenti amministrative, che poste sotto la lente dell'osservatore si configurano come un bacino di accumulazione di tutte le tensioni sociali e delle inquietudini che percorrono l'intero continente, sono state una sorta di verifica non soltanto per il governo,ma anche della vocazione europea dell'Italia, fin dall'inizio accolta nel ristretto nucleo dei Paesi fondatori. Visto in quest'ottica, l'esito delle urne è in chiaro scuro e non consente di formulare analisi probanti sulla sorte che nella Penisola verrebbe riservata a un referendum all'inglese. Da un lato infatti è rassicurante il fatto che il "lepenismo" leghista non sia riuscito a sfondare nemmeno nelle sue roccaforti tradizionali. D'altro canto però l'alternativa che promuove i 5 Stelle ancora senza vere radici nel territorio presenta più incognite di quante ne risolva. Anzi, caso mai ne aggiunge se si considera la posizione ondivaga, se non addirittura ambigua, tenuta dai Movimento sui principali temi comunitari, e che certo non concorre a rendere più sereno il prossimo scenario.

 

LUPA. Nella sua colorita imprevedibilità, Roma forma con la storia un binomio indissolubile. A cavallo dei secoli l'antica " caput mundi", purtroppo mal ridotta nel rango di " mafia-capitale", dopo duemila e passa anni di peripezie riesce ancora a sorprendere il mondo intero eleggendo una donna alla carica di sindaco; la prima dopo la Lupa capitolina, balia generosa di due celebri gemelli. Cosa riuscirà a fare Virginia Raggi, parca di parole e prodiga di promesse, resta tutto da scoprire, ma il suo successo che fa il paio con altre due " prime assolute" a Torino e Ancona contribuisce in primis a dare lustro alla causa femminile e alla battaglia per la parità dei sessi come avviene in altre grandi città, da Parigi a Madrid. Stona però la sceneggiata di Beppe Grillo che giocando sul nome della sua candidata Chiara Appendino si presenta con una gruccia per appendere gli abiti, dimentico, lui che come comico dovrebbe saperlo, che mal comincia un periodo con una farsa di pessimo gusto.

 

AUTOCRITICA. Non occorreva essere facili profeti per capire dai tanti indizi disseminati nell'arco dei mesi che le elezioni comunali non sarebbero state una passeggiata di piacere per il Pd. Tra luci e ombre - tante ombre - il partito del premier si trova davanti a un risultato che certamente non lo soddisfa. Senza drammatizzarlo all'eccesso, non può neppure essere minimizzato, considerata l'importanza della posta in palio alle prossime scadenze referendarie. Se la vittoria di Sala rammenda con un solido filo un tessuto che minacciava di sfilacciarsi, ora corre l'obbligo di cambiare rotta per riprendere il contatto con la realtà prima che siano gli altri a farlo con ricette che assomigliano a placebo intrisi di retorica. Fare autocritica è un esercizio senz'altro utile che però non basta se il centro-sinistra non troverà finalmente il coraggio di voltare pagina e di adottare un linguaggio unitario per tornare a entusiasmare il Paese e la base che ora appare piuttosto frastornata.

 

RISCHI. Mentre dilaga ovunque una crisi dei valori che in talune circostanze lascia senza fiato, è stimolante il suggerimento di Angelo Panebianco, autorevole editorialista del Corriere della Sera, che invita a "ipotizzare il peggio" per aiutare ad aguzzare l'ingegno e ricercare le soluzioni adeguate al caso. Nella sua disanima circostanziata, l'autore del servizio parte dal presupposto che nel giro di pochi mesi si realizzino due eventi che da parte nostra non esitiamo a definire funesti: l'addio della Gran Bretagna all'Europa, di cui parliamo in apertura, e la non improbabile elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ne uscirebbe un quadro assai preoccupante, capace di procurare danni ingenti e in grado di rendere difficile la vita dell'intero emisfero occidentale. Forse entrambe le ipotesi non si verificheranno, ma anche in questo caso sarebbe sbagliato pensare che i rischi siano scomparsi dall'orizzonte poiché esisteranno sempre se non si provvederà a prevenirli.

 

martedì 21 giugno 2016

I padroni occulti del califfato continuano a seminare terrore

di Renzo Balmelli 

 

MINACCIA. Nulla sarà più come era. Ci vorrà tempo e una non comune forza d'animo prima che Orlando, paradiso del divertimento per i bambini tramutatosi in teatro dell'orrore, ritrovi il suo sorriso di città spensierata e tollerante. Per ora di fronte alla strage degli innocenti prontamente rivendicata dall'ISIS nell'ambito di una scaltra manovra di intimidazione, sembra di essere nel film di Von Trier Melancholia in cui i protagonisti inermi e rassegnati attendono l'impatto fatale tra la Terra e l'incombente corpo celeste che la distruggerà. Sullo sfondo di questo scenario diviene vieppiù urgente avviare una profonda riflessione in merito alle strategie da mettere in campo per contrastare una minaccia che rischia di diventare una tragica costante del nostro vivere quotidiano. Senza le opportune contromisure, i padroni occulti del califfato sapranno di trovare facilmente un terreno di coltura per seminare terrore e per continuare a esercitare l'effetto perverso del loro operato che annulla la ragione.

 

OMBRA. Siamo su una bruttissima china e diventa oltremodo difficile e complesso collegare come nodi lungo un filo le losche manovre dei burattinai tesi a farci sprofondare nell'oscurantismo. Ogni giorno, blog dopo blog, assistiamo a un florilegio di verdetti sommari, frutto di un approccio mentale pericoloso, nell'intento di colpevolizzare in blocco tutti i mussulmani che in stragrande maggioranza credono nella convivenza pacifica tra i popoli. E' quindi indispensabile non alimentare un clima da "guerra di civiltà" e di sospetto generalizzato secondo lo schema già ampiamente sfruttato dalla destra di Trump e dei suoi seguaci per una bieca speculazione di carattere elettorale che può causare gravi danni al Paese. Certo, il massacro in Florida fa calare un'ombra sulle elezioni americane evocando paure non facili da governare. Eppure, è proprio nei momenti storici "un po' così" che la battaglia delle idee, la madre di tutte le battaglie, rimane l'unica capace di dare scacco matto al terrore.

 

PACE. Tanto di cappello al gestore dell'edicola di Roma che per rispetto verso tutte le vittime del nazismo e per convinta fede antifascista si è rifiutato di esporre il Mein Kampf nell'ambito di una controversa operazione editoriale. Per andare a fondo de male assoluto e dei temibili meccanismi psicologici che hanno ottenebrato milioni di individui nel culto del Terzo Reich, occorre un corredo bibliografico ben più robusto che non il libraccio di Hitler, buono al massimo per l'immondezzaio. Se proprio se ne vuole sapere di più sulle nefandezze del Führer e dei suoi complici vi sono letture più appropriare, a cominciare dal bellissimo La guerra non ha un volto di donna del premio Nobel Svetlana Aleksievic. Vi si narra, senza cedimenti alla retorica, l'epopea di tante giovani, volontarie sovietiche accorse al fronte per difendere la loro patria e quindi anche la nostra da un invasore spietato. L'opera non è un manuale di storia, ma una storia dei sentimenti che ne fa uno straordinario libro di pace.

 

ISOLAMENTO. Calcoli, soltanto calcoli. Non v'è un solo briciolo di idealismo nel dibattito che precede l'infuocato referendum sulla Brexit. Tutti li col pallottoliere a tenere la contabilità in borsa e in moneta sonante su chi vince e chi perde se gli inglesi decidessero di lasciare l'UE per rintanarsi nel loro anacronistico splendido isolamento. In questa fase di totale incertezza la posta in palio va invece ben oltre il fiume di miliardi di sterline che nel caso di una vittoria del SI, attraversando la Manica prenderebbero la via di qualche dorato esilio in compiacenti forzieri. La vera sfida è altrove. Con l'addio dell'isola si aprirebbe un lungo periodo di incognite potenzialmente dirompenti, non di mesi, ma addirittura di anni, che potrebbe sancire la fine dell'Unione e portare al progressivo sgretolamento del vecchio, ma sempre attuale progetto di unità politica ora preso a calci dal nazionalismo xenofobo, pronto a riportare in auge ricette disastrose.

 

VOLONTÀ. Domanda retorica: verrà mai un giorno in cui la sinistra italiana, pur nel rispetto delle sue varie componenti, riuscirà a presentarsi unita davanti agli elettori, anziché regalare punti preziosi agli avversari? Sembrerebbe decisamente di no, perlomeno dopo avere misurato la temperatura al calor bianco delle furibonde polemiche scoppiate in vista dei ballottaggi e del referendum costituzionale e rese ancora più incandescenti dalla botta inaspettata di D'Alema. Eppure intendersi non è impossibile. Per capirlo basterebbe gettare un'occhiata a quanto accade a Washington dove due personaggi agli antipodi del partito democratico quali sono Hillary Clinton e Bernie Sanders provano a dare vita a una piattaforma comune per contrastare la destra repubblicana. Tra loro non è scoppiato l'amour fou, ma questo primo passo testimonia la concreta volontà di unire gli sforzi per il bene degli Stati Uniti. E se ce la fanno loro, cosa impedisce alla sinistra nostrana di liberarsi dalle pastoie della litigiosità cronica? Seconda domanda retorica.

 

mercoledì 15 giugno 2016

Per lei e per la causa femminile - Il momento storico di Hilary

SPIGOLATURE 

  

di Renzo Balmelli 

 

FIRST. Nelle corse a tappe i fuori classe si vedono quando iniziano le salite. Per Hillary Clinton, che sa il fatto suo, dopo il percorso relativamente pianeggiante delle primarie, la competizione più ardua inizia adesso e non sarà in discesa. La sua investitura, che ne fa la prima donna candidata alla Casa Bianca, è un grande momento storico per lei e per la causa femminile. Grazie a questa svolta epocale saltano le barriere che finora erano un ostacolo per tante americane ai vertici della carriera. Ma è soltanto l'inizio di una lunga volata.  Ciò che d'ora in poi attende l'ex first lady fino alla soglia della mitica Stanza ovale, sarà una sfida affascinante tra ragione e sentimento. Della prima, unita alle competenze, ne ha a iosa. Quanto alla capacità di evocare sentimenti, capacità che non è proprio il suo forte, dovrà riuscire, giocando meglio la carta delle emozioni, a conquistare il cuore dell'America arrabbiata con l'establishment che non la ama e si ribella al punto da farsi incantare dalle deleterie guasconate di Trump. Non è noto se esiste una versione in inglese del famoso detto "dagli amici mi guardi Iddio che ai nemici ci penso io". Qualcosa del genere però deve esserci se Obama già si è speso per esortare il partito a restare unito in modo da avere ancora un Paese a guida democratica, in grado di proteggere l'eredità delle sue riforme al riparo da avventure populiste.  

 

DISINCANTO. Si avverte tutto il peso della crisi dei valori che attanaglia l'Europa rendendola sempre più fragile, nel verdetto uscito dalle urne dopo il primo turno delle comunali. In Italia come nel resto del Continente si sono perse tante certezze. Da nord a sud le novelle sirene hanno lo stesso suono di quello della Lorelei, la bellissima ondina che incantava i marinai con promesse fallaci, causando naufragi e sciagure.  Comunque sia, al di là dell'espressione numerica del voto, che potrebbe ribaltarsi al secondo turno, la consultazione restituisce la radiografia di un Paese in parte sfiduciato che si avvia ai ballottaggi sull'onda del disincanto, spesso foriero di svolte poco raccomandabili.  Se non è l'anti politica, come si vorrebbe dare da intendere, è tuttavia un altro modo "tout court" di fare politica aggrappandosi a speranze che rischiano spesso di ridursi a miraggi. A tale proposito siamo nel bel mezzo di uno strano, fuorviante ragionamento. A qualcuno è passata per la mente l'idea peregrina di evocare l'avvento di un Cesare democratico, capace di cambiare la Nazione. Ma quando mai, tranne che nell'illusione prodotta dalla fata morgana, si è visto un Cesare democratico.

 

MACERIE. Quando Ralph Dahrendorf subito dopo il crollo del Muro di Berlino dichiarò che la storia aveva imparato a correre, non si sbagliò. Ciò che l'emerito filosofo e sociologo, scomparso nel 2009, forse non aveva previsto è che sotto la spinta degli eventi la corsa partita tra gli applausi del mondo avrebbe finito col diventare affannosa, confusa, senza meta.  A quasi trent'anni da quella profezia, l'UE, minata dal populismo a con l'incubo del Brexit, appare davvero stremata, frastornata, incapace di riconciliarsi con gli ideali dei padri fondatori. Eppure la salvezza e il futuro del grande progetto comunitario dipendono in primo luogo da un salutare ritorno alle origini, alle fondamenta della casa comune, la sola capace di tenere a bada le forze oscure che non aspettano altro che vederla crollare per camminare sulle sue macerie. Un copione già visto che dà i brividi. 

 

MITO. Lo si può ricordare in mille modi, col nome di battesimo di Cassius Clay o con quello di Muhammad Ali che volle assumere dopo la conversione all'Islam. Si possono rievocare i suoi successi sportivi, l'Olimpiade, l'indimenticabile incontro con Foreman nel cuore dell'Africa. "Volo come la farfalla e pungo come l'ape" è stata una delle sue frasi più celebri che testimoniano l'incredibile personalità di un pugile leggendario. A collocarlo però sotto un'altra luce che ne svela la grande umanità è stata la sua ferma decisione di non combattere in Vietnam con una scelta esemplare che ha segnato un'epoca anche dal punto di vista ideologico. Nel dichiarare che la boxe non ha nulla a che vedere con l'ammazzare i Vietcong, uno dei maggiori personaggi della storia dello sport è entrato nel mito, diventando , lui che aveva nei pugni una potenza micidiale,  un'icona della pace e della tolleranza razziale. Grazie a lui verrà magari il giorno in cui, prendendo lo spunto dal celebre aforisma, potremo dire finalmente che "c'è la guerra, ma nessuno ci va".

 

Per Andrea Rocchelli

La “troppa verità” di Rocchelli che dava fastidio ai potenti

 

Il testo dell’intervento di un decano del giornalismo svizzero alla matinée zurighese per Andrea Rocchelli

 

di Renzo Balmelli

 

Parlare di Andrea Rocchelli in presenza dei genitori è un onore che provoca profonde emozioni nel commemorare la figura di  un collega che si è sempre speso per tutelare la deontologia professionale, senza compromessi.

    Nel rispetto della memoria e nel rammarico per non averlo più tra noi, ciò che sconcerta a due anni dalla sua uccisione è l'assenza di un qualsiasi movente, se non quello della brutale prevaricazione. Il movente di un gesto criminale tanto assurdo. Niente si muove nell'inchiesta e alla domanda perché è morto non c'è risposta. O forse, invece, di risposte ce ne sono, eccome.

    In una sua mail Miriam Lustig, provetta interprete e guida dei vari interventi che hanno contrassegnato l'iniziativa del Coopi, annota che in Andy si avvertiva l'esigenza di un'esperienza diretta quale movente del fotoreporter. A documentarla, questa esigenza, ci sono le immagini che inchiodano i potenti alle loro responsabilità, alle loro viltà, ai loro biechi e inconfessabili interessi. Rocchelli insomma era un testimone scomodo. Nelle sue foto – dicevano i suoi critici – c'era troppa verità. Dava fastidio. Ma di verità non ce n'è mai troppa. La guerra è dura, non solo uccide, ma distrugge anche la dignità dell'uomo; quella dignità che Andrea, refrattario ai comunicati e alle versioni edulcorate, ha cercato di riscattare documentandosi sul posto per raccontare quel che succede, senza filtri, in modo diretto, senza ambigue mediazioni. E andando incontro al sacrificio.

    In quest'ottica il suo giornalismo non era ingessato, non era vittima di preconcetti e ottuse misure, non era omologato, ma capace di intercettare la realtà al servizio appunto della verità e per dare voce a chi ne ha poca o non ne ha del tutto. Un politico italiano, esprimendosi in un altro contesto, ebbe a dire che Casaleggio era morto a causa dei giornalisti. Nella sua veemenza iconoclasta aveva dimenticato che i giornalisti non uccidono, ma caso mai cadono al fronte, al servizio della buona causa. E sono tanti: duemila nel mondo, quasi una trentina in Italia, senza macchia e senza paura, proprio come Andy coraggiosi e determinati, consapevoli dal fatto che il senso più alto e meritorio del loro lavoro compiuto con onestà è un dovere etico e morale per il rispetto della vita umana e per la difesa della libertà nella democrazia.

    Le parole non alleviano il dolore dei suoi cari, ma il ricordo di Andrea Rocchelli e del suo esempio luminoso vivrà in chi lo ha conosciuto e ha condiviso la sua breve e intrepida vicenda umana e professionale tesa a lottare contro le angherie ed i soprusi. Una lezione preziosa che aiuta a guardare avanti.

 

mercoledì 1 giugno 2016

Austria. Felix per un giorno

di Renzo Balmelli 

 

DESTINO. Felix per un giorno, uno solo: il giorno dello scampato disastro. All'indomani di un voto che per un soffio le ha evitato l'onta di essere il primo Paese dell'UE con un Presidente di estrema destra, voto che però ha solo arginato provvisoriamente il fiume della rabbia, l'Austria si interroga sul suo destino in presenza del forte pericolo ultra nazionalista che il passaggio nelle urne non ha cancellato. Ora più che mai gli europei orgogliosi di esserlo non potranno accontentarsi di tirare un sospiro di sollievo. Altri Hofer infatti sono in agguato un po' ovunque per riportare indietro le lancette del progresso. All'Europa serve un deciso cambio di passo per ritrovare senza indugi i principi cardini dei padri fondatori, tanto più che il populismo non fa appello alla capacità di giudizio delle persone, ma alla forza dei loro pregiudizi.

 

ASSETTI. Pur celebrando la vittoria di Alexander Van der Bellen, un professore ecologista di ampie vedute, sono ancora tante le minacce attorno a noi che consigliano di non abbassare la guardia. Prendiamo il Brexit ad esempio, oppure il Front National in continua crescita, due tessere del complesso e delicato mosaico continentale che nella sciagurata ipotesi di un loro successo potrebbero sconvolgere gli assetti dell'UE con conseguenze inimmaginabili. Con la zia Marine, che insegue il mito di Marianne, e la nipote Marion, con aspirazioni da Giovanna d'Arco, siamo agli antipodi del nuovo capo di stato austriaco, un signore che con orgoglio si dichiara "figlio di immigrati". Quegli immigrati appunto che l'agguerrito binomio Le Pen vorrebbe invece spazzare via per evitare il "fastidioso contagio multiculturale". 

 

SILURI. Che il problema, invero di grosse proporzioni, rappresentato dal flusso dei migranti sia una formidabile macchina di consensi a buon mercato per gli xenofobi di ogni risma è un fatto grave e accertato, al pari della deriva che lo accompagna nelle sue manifestazioni più retrive. Quindi o si reagisce secondo le regole della democrazia frutto degli assetti maturati attraverso le varie fasi dell'integrazione europea, oppure sono da prevedere non pochi siluri in grado di mettere a rischio l'esistenza stessa della casa comune. Tante per cominciare sarebbe ora di riflettere sulle origini del fenomeno migratorio e dirsi che se non si vogliono i rifugiati per prima cosa si dovrebbe porre fine alle guerre. Soluzione che non fa comodo ai populisti, essendo risaputo che senza capro espiatorio nessuno più li vota. 

 

FORAGGIO. Quanti "se". Sono la somma delle incognite che gravano sull'Italia alla vigilia di una lunga stagione che si preannuncia politicamente molto calda. Calda e dall'esito incerto in quanto il Paese passerà da una logorante campagna elettorale all'altra a partire dalle prossime comunali fino all'autunnale referendum sulla riforma costituzionale. Nell'attuale congiuntura, scandita dal clima di incertezza che regna sia all'interno, sia sul piano internazionale, è difficile esprimere un pronostico sul verdetto delle urne. Al massimo si può formulare un auspicio e sperare che non si realizzino le condizioni per insediare a Roma l'anti politica che costituisce il miglior foraggio per coloro che plaudono ai muri. In quest'ottica il centro sinistra è chiamato a dare una prova di coesione che però non appare scontata. 

 

COSCIENZA. Anche da morto hanno provato a rinchiudere Marco Pannella dentro una cornice dalla quale questo moderno Don Chisciotte si è sempre tenuto lontano, sfuggendo a qualsiasi catalogazione con intelligenza, intuito e furbizia. Del suo testamento politico, se mai ne avrà uno, resterà il ricordo delle sue battaglie civili condotte anche a sprezzo della salute allo scopo di affermare - spiegava lui - "il diritto alla vita e la vita del diritto". Come ha scritto un lettore, per quelli della sua generazione il leader radicale è stato" un impasto di sentimenti complessi e contraddittori tra ciò che avremmo potuto essere e non siamo diventati". Destino comune a tutti coloro che, al pari di Pannella, lottando e anche sbagliando sono stati comunque un pezzo di coscienza nel Bel Paese dei troppi compromessi.

 

CANDORE. Dall'Europa all'America e ritorno. Sulla falsariga di quanto accade nel Vecchio, anche nel Nuovo Mondo i residui egoisti della storia rimbalzano da una costa all'altra dell'Atlantico condizionando pesantemente la campagna elettorale negli USA. Sotto la spinta di Donald Trump, capace di cavare dal suo cilindro il peggio del peggio, il vento gonfio di collera e rancori è simile a quello che soffia dalle nostre parti. Chi ha lasciato fare l'ineffabile miliardario senza provare a cambiare registro con l'audacia, l'onestà e il candore del signor Smith ideato da Frank Capra, avrà parecchi conti da rendere alle future generazioni. Qualora l'impensabile diventasse possibile e il repubblicano finisse alla Casa Bianca, dai tasti del pianista sull'oceano salirebbero note intrise di tristezza per la fine del sogno americano. 

 

MESSAGGIO. Si usa dire che gli assenti hanno sempre torto. Quest'anno però, pensando all'esclusione dell'Italia dal concorso principale, non si può affermare, a schermi spenti, che il Festival di Cannes sia stato una fucina di originalità e di novità, benché i nomi fossero di tutto rispetto. Fa eccezione l'intramontabile Ken Loach, un valore sicuro che si erge una spanna sopra gli altri. Col suo I, Daniel Blake, a detta dei critici uno dei suoi film più convincenti, l'autore ha vinto la sua seconda Palma d'oro, privilegio raro sulla Croisette. Fedele allo stile che ha sempre guidato il suo impegno sociale, il regista ha colto il segno dei tempi lanciando, con la sensibilità che gli è propria, un commovente messaggio a favore dei diseredati del mondo intero la cui situazione non fa che peggiorare.