di Renzo Balmelli
ALLARME. È inutile menare il can per l’aia. Solo quando si darà all’AfD la definizione più consona al suo inquietante e oscuro Dna, si potrà cominciare a ragionare seriamente sul vespaio in cui rischiano di trovarsi la Germania in particolare e l’Europa in generale dopo l’esplosiva avanzata dello schieramento ultrà. Tutti gli altri tentativi di addolcire la pillola sono scappatoie per non prendere atto di una deriva torbida e allarmante. Quasi cento deputati in un solo colpo non sono una bazzecola e neppure un casuale incidente di percorso, bensì l’espressione di uno stato d’animo alterato che non soltanto si ribella ai migranti e all’euro, ma che affonda le sue radici in un pantano maleodorante. Definire la Alternative un movimento di estrema destra pare quindi riduttivo. Per capirne la reale portata si pensi agli abitanti di quel villaggio tedesco che pur non avendo in casa un solo profugo hanno votato in massa per il partito che in appena quattro anni, a riprova della sua strisciante e contagiosa ramificazione, ha sbancato il tavolo delle elezioni al Bundestag. Magari sarà vero che l’AfD resterà tagliata fuori dalle alleanze, ma intanto l’allarme suona mentre si allarga il fronte di chi scalpita per “resettare” la democrazia. Il suo vero nome? Lo scopriremo presto, molto presto, e non sarà come soleva dire il vecchio Le Pen un banale dettaglio della storia.
SINISTRA. In passato, quando la destra tracimava (e adesso sta tracimando come un fiume in piena), toccava alla sinistra dare prova di saggezza per riportare le acque dentro il loro alveo naturale. Ma qualcosa ci dice che questa volta non sarà così. Dopo l’esito della tornata elettorale che ha messo a soqquadro la Berliner Republik, i margini di manovra della SPD, che porta con orgoglio il primato di più vecchio movimento della classe operaia e internazionalista, sono ormai piuttosto ridotti. Il crollo della compagine guidata da Martin Schultz evidenzia una crisi di programmi, leadership e consensi laddove, ai tempi di Willy Brandt, la SPD si poneva invece all’avanguardia nel contrastare le forze della reazione. Nell’intervista al Corriere della Sera il presidente emerito Giorgio Napolitano, al quale rubiamo le parole chiedendo venia per il plagio, sostiene che la sinistra «è in crisi ed ha smarrito la sua funzione». Giusto. L’analisi però non si limita al caso tedesco, ma punta i riflettori sulle condizioni in cui versa il socialismo europeo che ora, di fronte a questa sfida, ha l’impellente obbligo morale di ritrovare in sé la forza di reagire e di affrancarsi dalla litigiosità che lo paralizza nello svolgere appunto la sua naturale funzione. “Quale?”, si dirà. Non cerchiamo lontano. Essere semplicemente di sinistra, per quanto banale ciò possa suonare.
DOLORI. Non sappiamo se nella cultura del Myanmar, nome moderno dell’antica Birmania, vi sia un personaggio simile al Werther di cui Goethe cantò i dolori. In una chiave di lettura contemporanea, a tale ruolo, sicuramente non dei più facili da interpretare, potrebbe essere associata la figura di Aung San Suu Kyi che – da celebrata, citata e imitata Premio Nobel per la Pace – di colpo si è trovata nel mezzo di durissime contestazioni a causa delle persecuzioni di cui sono vittima i profughi della minoranza Rohingya. La posizione poco chiara assunta dalla leader birmana nei confronti della crisi dagli evidenti risvolti umanitari oltre che politici, ha finito col trasformarla da ammirata e indomita lottatrice contro i soprusi della dittatura militare in una eroina tragica che, proprio a causa dell’atteggiamento defilato, mostra la debolezza del processo di transizione democratica nel Paese dei mille templi. E in cui i generali, seppure nell’ombra, pare abbiano ancora l’ultima parola. Solo le azioni dei prossimi tempi potranno restituire a questa donna che ha incarnato le speranze di tutto un popolo il credito internazionale andato perso nel corso di una vicenda che rischia di esporre il Myanmar a nuove ondate di radicalizzazione e ad altri dolori.
STRUMENTO. Da più parti era stato annunciato che l’anno in corso avrebbe segnato la sconfitta del populismo e il riscatto dell’Europa. Come una puntata al lotto che raramente ci azzecca, anche questo pronostico, seppur dettato dalle migliori e più condivisibili intenzioni, è andato nella direzione opposta. Il populismo non ce lo siamo lasciato alle spalle e tutto il magma indigesto che gli fa da contorno pesa come un macigno sul cuore e sullo stomaco. Per fortuna nostra – al di là di chi senza arrossire fa l’apologia dei soldati di Hitler – a evitare di cadere nel baratro provvede instancabile e salvifica la missione della cultura che non conosce frontiere, razze e problemi di identità. Esemplare a tale proposito è stato il Festival musicale di Lucerna che nel solco tracciato da Claudio Abbado e dal suo insigne erede Riccardo Chailly, per la prima volta ha aperto le porte ai migranti, sottolineando così il valore universale della musica quale potente strumento – è proprio il caso di dirlo – per mettere in comunicazione popoli diversi. Questa iniziativa raccoglie nel senso dell’apertura al mondo la sfida che Toscanini lanciò all’egida nazista e che ora prosegue affinché la note sublimi dei grandi compositori possano essere ascoltate da tutti scavalcando le bacate ideologie dei costruttori di muri.