martedì 31 ottobre 2017

200 milioni… di “cene eleganti”

di Renzo Balmelli

CENE. Che l'iperbole sia uno dei principali nutrimenti della politica non si scopre oggi. Di affermazioni magniloquenti e promesse mirabolanti sono piene le fosse. A volte però l'uso della figura retorica sconfina negli spropositi. Si arriva così alla mastodontica quota di 200 milioni di voti, tanti quanti ne avrebbe raccolti Berlusconi nella sua non proprio esaltante carriera. Più o meno come se l'intera popolazione italiana, neonati compresi, avesse votato per lui quattro volte di fila. Cose da fare impallidire la famosa maggioranza bulgara. Se non è una bufala colossale (fake news come si dice oggi) poco ci manca. D'altronde anche i turibolieri meglio indottrinati ammettono, seppure a denti stretti, che il calcolo è un po' forzato. Ma dopotutto che cosa non si farebbe per un posticino alle “cene eleganti” di cui i sostenitori agognano il ritorno.

 

MONTAGNA. Col passare del tempo e volatilizzata l'euforia post referendaria, la Gran Bretagna è tormentata dai dubbi. La Brexit non è esattamente come l'avevano prospettata i suoi promotori. Costa una barca di soldi ed è soggetta a regole che allontanano la prospettiva di divorziare dall'UE senza perdere i vantaggi riservati ai Paesi membri. La stessa Theresa May, costretta a far buon viso a cattiva sorte, contribuisce ad aumentare l'incertezza non sapendo che pesci pigliare tra lo “exit” e il “remain” se si dovesse rivotare. La sua speranza è che sotto l'albero di Natale possa esserci un accordo che le risparmi di essere scalzata dai secessionisti più radicali. Ma oggi come oggi a Londra nessun bookmaker accetta scommesse su come andrà a finire questa storia, più impervia delle montagne che nell'ottocento gli alpinisti inglesi scalavano con albionica baldanza.

 

IDENTITÀ. Soltanto grazie a una grande forza socialista l'Europa riuscirà a navigare in acque più tranquille. Ultimamente la sinistra europea dava l'impressione di essersi assopita, anziché elaborare le necessarie contromisure per fare argine all'onda nera e sovranista. Indubbiamente le controprestazioni elettorali, pesanti come macigni, hanno frenato gli ardori. Per fortuna, a furia di squillare sempre più forte, il campanello d'allarme è stato recepito e la gloriosa famiglia del PSE, a dispetto delle sconfitte, è ora determinata a ricostituire una forte identità tanto nazionale quanto a livello internazionale. È un grande sfida democratica – ha detto il presidente Pittella alla Convention di Togheter – una sfida per sottrarre i cittadini a un senso di abbandono e solitudine che finirebbe col dividere e non a cambiare l'Europa in senso progressista.

 

CASACCA. Erano quegli anni la, quando il “Libretto Rosso” di Mao andava a ruba anche in occidente. È stata l'opera che ha avuto la maggior diffusione con oltre 300 milioni di copie, ma quanto ancora resti di quella bibbia del comunismo ritenuta in grado di risolvere tutti i problemi della vita, è una questione rimasta irrisolta. Se una immagine vale più di mille parole, quella che mostra le hostess elegantissime che a passo marziale servono il tè al recente congresso del partito comunista cinese da la misura di quanto sia cambiato il Paese. Eppure, nonostante le apparenze, sembra di scorgere una sottile linea di continuità tra la politica dei cento fiori del “Grande timoniere” e il leader attuale che promette "una vita migliore e più felice" al suo popolo. Ora più nessuno indossa la casacca d'ordinanza, ma l'abito sartoriale non sempre è sinonimo di democrazia.

martedì 17 ottobre 2017

Banale dettaglio della Storia?

di Renzo Balmelli 
 
ALLARME. È inutile menare il can per l'aia. Solo quando si darà all'AfD la definizione più consona al suo inquietante e oscuro Dna, si potrà cominciare a ragionare seriamente sul vespaio in cui rischiano di trovarsi la Germania in particolare e l'Europa in generale dopo l'esplosiva avanzata dello schieramento ultrà. Tutti gli altri tentativi di addolcire la pillola sono scappatoie per non prendere atto di una deriva torbida e allarmante. Quasi cento deputati in un solo colpo non sono una bazzecola e neppure un casuale incidente di percorso, bensì l'espressione di uno stato d'animo alterato che non soltanto si ribella ai migranti e all'euro, ma che affonda le sue radici in un pantano maleodorante. Definire la Alternative un movimento di estrema destra pare quindi riduttivo. Per capirne la reale portata si pensi agli abitanti di quel villaggio tedesco che pur non avendo in casa un solo profugo hanno votato in massa per il partito che in appena quattro anni, a riprova della sua strisciante e contagiosa ramificazione, ha sbancato il tavolo delle elezioni al Bundestag. Magari sarà vero che l'AfD resterà tagliata fuori dalle alleanze, ma intanto l'allarme suona mentre si allarga il fronte di chi scalpita per "resettare" la democrazia. Il suo vero nome? Lo scopriremo presto, molto presto, e non sarà come soleva dire il vecchio Le Pen un banale dettaglio della storia. 
 
SINISTRA. In passato, quando la destra tracimava (e adesso sta tracimando come un fiume in piena), toccava alla sinistra dare prova di saggezza per riportare le acque dentro il loro alveo naturale. Ma qualcosa ci dice che questa volta non sarà così. Dopo l'esito della tornata elettorale che ha messo a soqquadro la Berliner Republik, i margini di manovra della SPD, che porta con orgoglio il primato di più vecchio movimento della classe operaia e internazionalista, sono ormai piuttosto ridotti. Il crollo della compagine guidata da Martin Schultz evidenzia una crisi di programmi, leadership e consensi laddove, ai tempi di Willy Brandt, la SPD si poneva invece all'avanguardia nel contrastare le forze della reazione. Nell'intervista al Corriere della Sera il presidente emerito Giorgio Napolitano, al quale rubiamo le parole chiedendo venia per il plagio, sostiene che la sinistra «è in crisi ed ha smarrito la sua funzione». Giusto. L'analisi però non si limita al caso tedesco, ma punta i riflettori sulle condizioni in cui versa il socialismo europeo che ora, di fronte a questa sfida, ha l'impellente obbligo morale di ritrovare in sé la forza di reagire e di affrancarsi dalla litigiosità che lo paralizza nello svolgere appunto la sua naturale funzione. "Quale?", si dirà. Non cerchiamo lontano. Essere semplicemente di sinistra, per quanto banale ciò possa suonare.
 
DOLORI. Non sappiamo se nella cultura del Myanmar, nome moder­no dell'antica Birmania, vi sia un personaggio simile al Werther di cui Goethe cantò i dolori. In una chiave di lettura contemporanea, a tale ruolo, sicuramente non dei più facili da interpretare, potrebbe essere associata la figura di Aung San Suu Kyi che – da celebrata, citata e imitata Premio Nobel per la Pace – di colpo si è trovata nel mezzo di durissime contestazioni a causa delle persecuzioni di cui sono vittima i profughi della minoranza Rohingya. La posizione poco chiara assunta dalla leader birmana nei confronti della crisi dagli evidenti risvolti umanitari oltre che politici, ha finito col trasformarla da ammirata e indomita lottatrice contro i soprusi della dittatura militare in una eroina tragica che, proprio a causa dell'atteggiamento defilato, mostra la debolezza del processo di transizione democratica nel Paese dei mille templi. E in cui i generali, seppure nell'ombra, pare abbiano ancora l'ultima parola. Solo le azioni dei prossimi tempi potranno restituire a questa donna che ha incarnato le speranze di tutto un popolo il credito internazionale andato perso nel corso di una vicenda che rischia di esporre il Myanmar a nuove ondate di radicalizzazione e ad altri dolori.
 
STRUMENTO. Da più parti era stato annunciato che l'anno in corso avrebbe segnato la sconfitta del populismo e il riscatto dell'Europa. Come una puntata al lotto che raramente ci azzecca, anche questo pronostico, seppur dettato dalle migliori e più condivisibili intenzioni, è andato nella direzione opposta. Il populismo non ce lo siamo lasciato alle spalle e tutto il magma indigesto che gli fa da contorno pesa come un macigno sul cuore e sullo stomaco. Per fortuna nostra – al di là di chi senza arrossire fa l'apologia dei soldati di Hitler - a evitare di cadere nel baratro provvede instancabile e salvifica la missione della cultura che non conosce frontiere, razze e problemi di identità. Esemplare a tale proposito è stato il Festival musicale di Lucerna che nel solco tracciato da Claudio Abbado e dal suo insigne erede Riccardo Chailly, per la prima volta ha aperto le porte ai migranti, sottolineando così il valore universale della musica quale potente strumento – è proprio il caso di dirlo – per mettere in comunicazione popoli diversi. Questa iniziativa raccoglie nel senso dell'apertura al mondo la sfida che Toscanini lanciò all'egida nazista e che ora prosegue affinché la note sublimi dei grandi compositori possano essere ascoltate da tutti scavalcando le bacate ideologie dei costruttori di muri.


mercoledì 11 ottobre 2017

Una riga di zeri non basta

di Renzo Balmelli

SOLIDARIETÀ. Sulla terra il motore di chi lotta contro le prevari­ca­zioni è sempre acceso. Purtroppo, nonostante l'abnegazione di chi si impegna per il bene degli altri, il quadro anziché migliorare peggiora, sopraffatto dall'egoismo e dall'avidità. In un mondo segnato dal cal­vario dei migranti in fuga dalle guerre e dai soprusi dell'uomo sull'uo­mo, l'abisso tra ricchi e poveri assume sempre più proporzioni che non è esagerato definire mostruose. Una di queste righe non basta per alli­neare gli zeri necessari a calcolare i patrimoni in mano a pochi privi­le­giati. Qualcosa come 70 mila miliardi di dollari o giù di lì. Eppure non è affatto impossibile immaginare di mettere in piedi un sistema capace di riscattare da una vita di stenti tutti coloro che sono condannati all'esilio nel cono d'ombra di un benessere che non conosceranno mai. Andando oltre la carità pelosa, basterebbe uno scatto di solidarietà pura e condivisa per porre rimedio ai guasti delle ingiustizie. Il messaggio però non sembra fare breccia nel resort esclusivo dei Paperoni trincerati in un loro ovattato e invalicabile Eldorado.

PERICOLO. Alle prese con il ginepraio della Brexit, allarmata dal­l'esito delle elezioni tedesche e le loro ricadute estremiste, in difficoltà nell'elaborare una strategia concordata per affrontare l'emergenza dei profughi e in ultima analisi esposta alla minaccia del terrorismo, l'Eu­ro­pa unita si trova confrontata a una quantità di problemi che provo­ca­no la rabbia degli esclusi. Per tutta risposta agli interrogativi che ci assillano, da qualche tempo sembra prevalere, con una stupefacente contorsione del linguaggio, la tendenza a considerare destra e sinistra come categorie arrugginite. È una tesi che lascia perplessi non tanto per la terminologia, quanto per il tentativo di omogeneizzare idee, culture e visioni che non potranno mai stare sullo stesso piano. Quali disastri possa provocare la deriva populista, spesso intinta nell'inchio­stro della xenofobia, è ormai sotto gli occhi di tutti. Sempre più mar­cato si avverte di converso il bisogno di programmi sociali chiari, profilati e capaci di recuperare la vera anima di sinistra senza la quale incombe il pericolo del qualunquismo, quello sì davvero arrugginito.

STRAPPI. È difficile dire se esista un ritorno di fiamma per le piccole patrie di cui non si conserva un buon ricordo. In Catalogna la demar­ca­zio­ne tra coloro che aspirano all'autodeterminazione e chi invece con­sidera la stabilità all'interno dei propri confini come un valore comune che merita di essere difeso ha evidenziato che il problema esiste ed è profondo. Lo scontro tra le ragioni degli uni ed i torti degli altri, de­fla­grato durante il referendum nel peggiore dei modi per un Paese civile, non ha certo contribuito a creare un clima propizio a future intese su basi pacifiche. All'opposto gli strappi al tessuto democratico paiono difficili da riassorbire in tempi brevi non solo in Spagna, ma anche per le loro ricadute nel continente. Ogni spinta all'autonomia fa storia a sé. Nel Kurdistan il referendum contestato degli scorsi giorni è stato un modo per rivendicare la fine di una diaspora che priva il popolo curdo del diritto ad avere una nazione. Anche qui è mancato il dialogo, così com'è mancato nei confronti del popolo catalano per un irrigidimento dei fronti che non promette nulla di buono.

DISASTRO. Berlusconi e Trump non hanno nulla in comune, tranne il vistoso campionario delle promesse mai mantenute. Se i biografi del­l'ex Cavaliere tendono a stendere un velo pietoso per fare credere quel­lo che fa piacere credere, negli Stati Uniti i nodi per il Presidente ame­ri­cano stanno venendo al pettine a velocità impressionante. Ormai a Washington la domanda che circola con maggiore insistenza consiste nel capire che cosa resta del trumpismo e dei suoi proclami. Messo in difficoltà dalla “Alt-right” (la destra alternativa repubblicana che striz­za l'occhio ai suprematisti bianchi), naufragata l'abolizione della rifor­ma sanitaria dell'odiato Obama e, per giunta, sfidato sul piano interna­zionale dall'ineffabile dottor Stranamore di Pyongyang, Trump – a quasi un anno dal suo ingresso alla Casa Bianca – ha fin qui dimostrato di non sapere andare incontro alle esigenze dei suoi elettori, esigenze che aveva promesso di affrontare al grido di “America first”. Se non è un disastro, poco ci manca!

FRAGILITÀ. Tra le tante cose che Trump avrebbe potuto fare per distrarre l'opinione pubblica dalle sue inadempienze, esisteva la possibilità di lanciare al Paese un messaggio chiaro sulla necessità di regolare con maggiore fermezza il facile accesso alla detenzione delle armi in mano ai privati. Nell'angoscia provocata dalla strage di Las Vegas, la più grave della storia moderna americana, era questo il momento per porre un argine a un fenomeno inquietante che non nasce oggi, ma che il terrorismo ha contribuito a riacutizzare in maniera drammatica. Non lo ha fatto. Già in passato molte sono state le battaglie combattute e perse dai precedenti inquilini della Casa Bianca che hanno provato a contenere l'arroganza della lobby delle armi. Un potente gruppo di pressione che infischiandosene dei rischi chiede addirittura leggi ancora più permissive. Ma bisogna insistere. Invece, con quel suo discorso che aggira il nocciolo del problema, il leader repubblicano non ha certo contribuito ad unire la popolazione dietro il progetto di maggiori controlli sulla vendita di fucili e pistole. Quei lunghi minuti di orrore nella capitale dei giochi d'azzardo forse non cambieranno il quadro politico, ma la mancanza di concretezza nel delineare efficaci contromisure evidenzia la fragilità di una presidenza che a sua volta sembra un azzardo.

martedì 3 ottobre 2017

Banale dettaglio della Storia?

di Renzo Balmelli

ALLARME. È inutile menare il can per l’aia. Solo quando si darà all’AfD la definizione più consona al suo inquietante e oscuro Dna, si potrà cominciare a ragionare seriamente sul vespaio in cui rischiano di trovarsi la Germania in particolare e l’Europa in generale dopo l’esplosiva avanzata dello schieramento ultrà. Tutti gli altri tentativi di addolcire la pillola sono scappatoie per non prendere atto di una deriva torbida e allarmante. Quasi cento deputati in un solo colpo non sono una bazzecola e neppure un casuale incidente di percorso, bensì l’espressione di uno stato d’animo alterato che non soltanto si ribella ai migranti e all’euro, ma che affonda le sue radici in un pantano maleodorante. Definire la Alternative un movimento di estrema destra pare quindi riduttivo. Per capirne la reale portata si pensi agli abitanti di quel villaggio tedesco che pur non avendo in casa un solo profugo hanno votato in massa per il partito che in appena quattro anni, a riprova della sua strisciante e contagiosa ramificazione, ha sbancato il tavolo delle elezioni al Bundestag. Magari sarà vero che l’AfD resterà tagliata fuori dalle alleanze, ma intanto l’allarme suona mentre si allarga il fronte di chi scalpita per “resettare” la democrazia. Il suo vero nome? Lo scopriremo presto, molto presto, e non sarà come soleva dire il vecchio Le Pen un banale dettaglio della storia.

SINISTRA. In passato, quando la destra tracimava (e adesso sta tracimando come un fiume in piena), toccava alla sinistra dare prova di saggezza per riportare le acque dentro il loro alveo naturale. Ma qualcosa ci dice che questa volta non sarà così. Dopo l’esito della tornata elettorale che ha messo a soqquadro la Berliner Republik, i margini di manovra della SPD, che porta con orgoglio il primato di più vecchio movimento della classe operaia e internazionalista, sono ormai piuttosto ridotti. Il crollo della compagine guidata da Martin Schultz evidenzia una crisi di programmi, leadership e consensi laddove, ai tempi di Willy Brandt, la SPD si poneva invece all’avanguardia nel contrastare le forze della reazione. Nell’intervista al Corriere della Sera il presidente emerito Giorgio Napolitano, al quale rubiamo le parole chiedendo venia per il plagio, sostiene che la sinistra «è in crisi ed ha smarrito la sua funzione». Giusto. L’analisi però non si limita al caso tedesco, ma punta i riflettori sulle condizioni in cui versa il socialismo europeo che ora, di fronte a questa sfida, ha l’impellente obbligo morale di ritrovare in sé la forza di reagire e di affrancarsi dalla litigiosità che lo paralizza nello svolgere appunto la sua naturale funzione. “Quale?”, si dirà. Non cerchiamo lontano. Essere semplicemente di sinistra, per quanto banale ciò possa suonare.

DOLORI. Non sappiamo se nella cultura del Myanmar, nome moder­no dell’antica Birmania, vi sia un personaggio simile al Werther di cui Goethe cantò i dolori. In una chiave di lettura contemporanea, a tale ruolo, sicuramente non dei più facili da interpretare, potrebbe essere associata la figura di Aung San Suu Kyi che – da celebrata, citata e imitata Premio Nobel per la Pace – di colpo si è trovata nel mezzo di durissime contestazioni a causa delle persecuzioni di cui sono vittima i profughi della minoranza Rohingya. La posizione poco chiara assunta dalla leader birmana nei confronti della crisi dagli evidenti risvolti umanitari oltre che politici, ha finito col trasformarla da ammirata e indomita lottatrice contro i soprusi della dittatura militare in una eroina tragica che, proprio a causa dell’atteggiamento defilato, mostra la debolezza del processo di transizione democratica nel Paese dei mille templi. E in cui i generali, seppure nell’ombra, pare abbiano ancora l’ultima parola. Solo le azioni dei prossimi tempi potranno restituire a questa donna che ha incarnato le speranze di tutto un popolo il credito internazionale andato perso nel corso di una vicenda che rischia di esporre il Myanmar a nuove ondate di radicalizzazione e ad altri dolori.

STRUMENTO. Da più parti era stato annunciato che l’anno in corso avrebbe segnato la sconfitta del populismo e il riscatto dell’Europa. Come una puntata al lotto che raramente ci azzecca, anche questo pronostico, seppur dettato dalle migliori e più condivisibili intenzioni, è andato nella direzione opposta. Il populismo non ce lo siamo lasciato alle spalle e tutto il magma indigesto che gli fa da contorno pesa come un macigno sul cuore e sullo stomaco. Per fortuna nostra – al di là di chi senza arrossire fa l’apologia dei soldati di Hitler – a evitare di cadere nel baratro provvede instancabile e salvifica la missione della cultura che non conosce frontiere, razze e problemi di identità. Esemplare a tale proposito è stato il Festival musicale di Lucerna che nel solco tracciato da Claudio Abbado e dal suo insigne erede Riccardo Chailly, per la prima volta ha aperto le porte ai migranti, sottolineando così il valore universale della musica quale potente strumento – è proprio il caso di dirlo – per mettere in comunicazione popoli diversi. Questa iniziativa raccoglie nel senso dell’apertura al mondo la sfida che Toscanini lanciò all’egida nazista e che ora prosegue affinché la note sublimi dei grandi compositori possano essere ascoltate da tutti scavalcando le bacate ideologie dei costruttori di muri.