mercoledì 19 ottobre 2016

Stavolta è tardi

I pesi massimi repubblicani si affannano, con capriole da circo, a prendere le distanze da un candidato prima sostenuto senza vergogna e ora diventato di colpo ingombrante. Non è mai troppo tardi?

 di Renzo Balmelli 

AMBIGUITÀ. Dopo la bufera sulle parole sessiste di Trump, nel GOP – il Grand Old Party repubblicano – di grande sono rimaste due cose: il caos in un clima di guerra civile secondo l'analisi del New York Times, e il fuggi-fuggi disperato dei pesi massimi del partito che con capriole da circo si affannano a prendere le distanze da un candidato prima sostenuto senza vergogna e ora diventato di colpo ingombrante. Certo, cambiare idea è legittimo e dopotutto non è mai troppo tardi per fare ammenda. Stavolta però no. Stavolta è davvero tardi e nessun espediente dei voltagabbana riuscirà a rammendare i guasti provocati dall'irrazionale deriva estremista della destra americana. Tanto più che il ravvedimento appare poco plausibile e dettato, più che altro, non dalle preoccupazioni per il bene del Paese, ma per il proprio tornaconto e il timore di restare a secco di poltrone. In questa sceneggiata, ex ministri, senatori, governatori e deputati sfidano il giudizio della storia avvolgendosi in una cappa di ipocrisia che la grande scrittrice Carol Oates sul Corriere della Sera bolla quale "ambiguità etica".

 

APOCALISSE. A volte la politica, a dispetto delle sue magagne, riesce ad accendere improvvisi bagliori, magari di breve durata, ma capaci per un istante di riscattarla dallo squallore in cui l'ha confinata il populismo imperante. Così, mentre Obama sul finire del suo mandato si spinge oltre i confini del mondo e regala agli americani il sogno di realizzare un giorno la conquista pacifica di Marte, Hillary Clinton, di par suo, si colloca quale baluardo tra gli Stati Uniti e l'Apocalisse. Poiché questa sarebbe la prospettiva in caso di una vittoria del suo rivale. Ammesso che i sondaggi non prendano l'ennesima cantonata, sembra che la cavalcata di Donald sia destinata a fermarsi sulla soglia della Casa Bianca. In queste elezioni, tuttavia, potrebbe accadere qualsiasi cosa nelle ultime settimane, ragion per cui è bene sperare, ma anche prepararsi al peggio. Scongiurato il rischio di vedere il repubblicano eletto Presidente, rimane comunque l'interrogativo sul futuro del "trumpismo", con tutto quanto di negativo comporta. Certe ricette di facile suggestione sono dure da sradicare. Lo si vede anche in Europa dove il “lepenismo” edulcorato di Marine, il leghismo senza Bossi e il berlusconismo rielaborato hanno sì cambiato il doppiopetto, ma in sostanza sono uguali a prima, se non peggiori. Difatti, guarda caso, sono molti in quella galassia gli estimatori di Trump.

 

MOSSA. A tre mesi dal referendum, la Gran Bretagna del Brexit ha gettato la maschera riposizionandosi in modo sempre più marcato nel ruolo defilato rispetto al Continente che fu già suo. Guidato non tanto dalla ragione bensì dalle emozioni, il cambio di passo sembra una mossa obbligata per sviare l'attenzione dalle pesanti ricadute interne del referendum. Nuove stime sull'uscita indicano infatti che potrebbe costare fino a 73 miliardi l'anno, con gravi conseguenze per il Pil. Le tendenze neo isolazioniste si sono manifestate in modo clamoroso con il varo delle liste di proscrizione nei confronti dei lavoratori stranieri, liste che non contribuiscono certo a rendere meno conflittuale il divorzio dall'UE, ma che hanno già provocato un coro di reazioni indignate. Intuita l'impopolarità del provvedimento, il governo conservatore ha fatto marcia indietro attenuandone i passi più scabrosi e punitivi. Permane tuttavia il disagio per il contraccolpo subito dall'immagine di una delle nazioni più ospitali del mondo, ora non più immune dal nazionalismo. 

 

FUGA. Addio, Italia bella. Non corrono più alla stazione con le valige di cartone, ma oggi come allora gli italiani se ne vanno, varcano la frontiera per raggiungere le mete favorite. In cima alle preferenze la Germania, la Svizzera, la Gran Bretagna (ma fino a quando con l'aria che tira?) dove sperano di costruirsi un futuro migliore. I numeri dicono che i nuovi emigranti sono sempre di più, sempre più giovani e freschi di studio. A muoverli in gran parte non è una libera scelta, ma una necessità per la mancanza in patria di lavoro e prospettive. Il boom di migrazioni rappresenta un segno di impoverimento poiché non di rado chi parte non torna reinvestendo altrove competenze e risorse di qualità di cui il Paese avrebbe invece bisogno. Sebbene le motivazioni siano diverse rispetto al passato, urge a questo punto un intervento della politica per invertire quella che appare come una vera e propria fuga di cervelli non priva di rischi.

 

NOSTALGIA. Che rimpatriata per chi era giovane idealista negli anni sessanta e in fondo al cuore lo è rimasto. C'era tutto il mito della Abbey Road, la strada di Londra immortalata dai Beatles, sul palco del festival di Indio dove Paul McCartney ha dato libero sfogo ai ricordi di un'epoca in cui la musica cambiò per sempre. All'appuntamento con le leggende del rock nella località californiana, appuntamento posto all'insegna della nostalgia, sono tornate a rivivere le speranze e le illusioni di una intera generazione che identificandosi nei brani dei "Fab Four" voleva cambiare il mondo oltre alla musica, per crearne uno migliore. Sentimenti che sono venuti a galla nel ricordo di chi non c'è più. Del gruppo di Liverpool sono rimasti Ringo Starr e Sir Paul che ha reso omaggio a John Lennon e alla sua Imagine, la canzone pacifista pensata per un mondo senza frontiere e senza muri che anche 45 anni dopo, a maggior ragione, nulla ha perso della sua straordinaria potenza evocativa.

lunedì 10 ottobre 2016

Due immagini

SPIGOLATURE 

 

Siamo rimasti allibiti davanti alla foto dei bambini di Aleppo che si tuffavano nella pozza limacciosa provocata da una bomba. Non meno sconvolgente il filo spinato che nell'est europeo sbarra il cammino ai migranti.

 

di Renzo Balmelli 

 

BUROCRATI. Nell'era della comunicazione virale, l'accostamento tra due immagini diffuse in Internet e viste da migliaia di utenti a volte vale più di mille parole. Siamo rimasti colpiti davanti alla foto dei bambini di Aleppo che si tuffavano in una pozza d'acqua limacciosa ricavata nel cratere di una bomba. Quel tenero gioco ai bordi di una improbabile piscina era per loro un momentaneo antidoto alle brutalità quotidiane cui li condanna la follia umana. Non meno sconvolgente è il filo spinato che nell'est europeo, dimentico di quando a sua volta era prigioniero di un sistema liberticida, sbarra il cammino ai migranti. Sono entrambe testimonianze del nostro tempo in cui il cuore tace e si è perso il senso della ragione. Il futuro per quei piccoli è già stato cancellato, ha detto Dacia Maraini. E per il dolente corteo dei profughi il cammino della speranza che si infrange davanti allo sguardo impassibile dei burocrati.

 

PIFFERO. Venne per suonare e fu suonato. Chissà se il premier ungherese Orbán conosce il detto popolare dei pifferai decisi a fare valere le proprie ragioni e che rimasero scornati. La stessa sorte è toccata a lui, convinto di vincere il referendum che doveva condannare le quote sui rifugiati. Invece, sbagliando bersaglio, ha fatto la figura del piffero. Voleva dare uno schiaffo a Bruxelles, ma i suoi connazionali e non i "cattivi" europei glielo hanno restituito. Ora si tratta di analizzare le ricadute di una sconfitta che in se è una buona notizia, ma che però è maturata in virtù del troppo assenteismo piuttosto che per intima convinzione. Il mancato quorum può infatti significare due cose. Una, quella positiva, che nella patria dei saggi ragazzi della via Pal non è ancora calato il sipario. L'altra, negativa, che Budapest non terrà conto del risultato e andrà avanti col suo giro di vite. La questione magiara resterà quindi ancora inquietante per l'UE e per giunta resa ancor più grave dalla smania di rivincita dei perdenti di oggi. 

 

SFIDA. Al di là dei guai di Orbán, finito al tappeto per l'eccessiva sicumera, il verdetto delle urne ungheresi riporta al centro del dibattito una delle sfide maggiori portate all'ideale comunitario sul quale già pesa la gravosa ipoteca del recente Brexit. La sfida della destra radicale. In effetti, nonostante la battuta d'arresto incassata in Ungheria, non sarà certo la galassia nazional-populista, che sperava e spera ancora nell'effetto domino, a fare marcia indietro. In Francia non si può escludere che Marine Le Pen diventi presidente. L'Austria è pericolosamente in bilico. In Italia risuonano le intemperanze leghiste e in alcune parti del continente si segnalano pulsioni da anticamera del fascismo. Se per delirio d'ipotesi negli USA vincesse Trump, per l'Europa sarebbe una tragedia. Per sventarla il Vecchio Continente dovrà chiamare alla mobilitazione le sue forze migliori, liberali e di sinistra, onde costruire, in antitesi all'oscurantismo, un UE di accoglienza, diritto e giustizia.

 

APATIA. Fino a ieri si sprecavano gli elogi per la fine del conflitto tra la Colombia e i guerriglieri delle FARC dopo oltre mezzo secolo di lotta armata. Purtroppo è andato tutto storto. Il sorprendente "no" dei colombiani che ha fatto fallire il referendum ha avuto l'effetto di una doccia gelata per le speranze di pace. Il rifiuto riporta infatti il destino del martoriato Paese alla casella di partenza. Ma forse era troppo pretendere di cancellare mezzo secolo di orrori da un giorno all'altro. I sorrisi e le strette di mano tra gli ex nemici non sono bastati a esorcizzare il ricordo ancora fresco di una storia fatta di morti, paura, rapimenti, sospetti, veleni, cartelli della droga e vecchi rancori. Sebbene tutte le parti in causa assicurino che il processo di pacificazione comunque non si ferma, in realtà nessuno ha vinto nello Stato dell'America meridionale. Nessuno tranne l'apatia della popolazione sfociata anche qui, come in Ungheria, nel forte astensionismo. Che però, in questo caso, non è una buona notizia.

 

POTERE. A quattrocento anni dalla morte e al netto delle speculazioni su chi fosse realmente, William Shakespeare non solo continua a infiammare accademici e studiosi, ma conserva la sua aura di genio universale che aveva previsto tutto. Tale convincimento è così diffuso da indurre il Washington Post a chiedersi cosa avrebbe detto il bardo di Stratford-upon-Avon in merito al duello Clinton-Trump. In questo contesto si citano i discorsi di Bruto e di Marco Antonio nel Giulio Cesare: il primo razionale, il secondo emozionale. La qualcosa porta la testata che smascherò i misfatti di Nixon nello scandalo del Watergate a domandarsi se "il popolo americano sia tentato dal populismo a causa del fallimento della politica". Lo sapremo quando parleranno le urne. La lotta per il potere, sosteneva Shakespeare, si consuma facendo fuori gli altri, il che conferisce una nota davvero intrigante all'originale chiave di lettura del quotidiano a un mese dall'infiammato rush finale per la Casa Bianca.