martedì 9 febbraio 2016

Non siamo al cinema

 di Renzo Balmelli 

 

ORRORE. Quasi fosse un film dell'orrore che non smette di girare e ad ogni sequenza aggiunge strazio allo strazio, da mesi siamo confrontati con notizie e immagini che non dovrebbero lasciare dubbi sulla drammaticità, la sofferenza e la disperazione che la migrazione forzata porta con sé. Ciò che rende necessario l'uso del condizionale non è però un vezzo grammaticale bensì la consapevolezza di non stare ad assistere alla proiezione di un lungometraggio, bensì di essere davanti alla realtà dei fatti che scorrono quotidianamente davanti ai nostri occhi senza che nessuno sia mai riuscito finora a porre fine alla più grave tragedia umanitaria del terzo millennio. Insomma non siamo al cinema. Quelli che vengono mostrati sono dolori veri, morti veri; è la cronaca terrificante di guerre e massacri compiuti da uomini in doppiopetto, in uniforme e sotto bandiere di vari colori a scapito di altri uomini, di altri esseri viventi che hanno la sola colpa di esistere. E ci si chiede quale biografia potranno mai fare valere coloro che ogni giorno rinnegano la politica fondata sui valori del consenso sociale e della solidarietà.

 

FANTASMA. Sono sempre più mal visti e sempre meno tollerati, eppure, tragica ironia del destino, non v'è trattativa, non v'è negoziato dal quale sia assente il tema dei migranti. In molti casi anziché aprire il cuore alla speranza, l'argomento viene affrontato alla stregua di una merce di scambio per strappare le migliori condizioni. Si parla di quote, si fissano paletti, oppure - notizia di questi giorni - si taglia il programma sociale per gli immigrati per aggirare la mina vagante del così detto "Brexit", termine che evoca la temuta uscita del Regno Unito dall'Unione Europea, alla quale Londra aveva aderito senza troppa convinzione. La sospensione del welfare sembra essere il passaggio obbligato per scacciare un fantasma che si è agitato per tanto tempo e che ancora si agiterà se i nostalgici dello splendido isolazionismo della Gran Bretagna dovessero prevalere in occasione del referendum. Con conseguenze inimmaginabili per l'UE e per chi bussa alla sua porta in cerca di protezione.

 

TRIBÙ. Nel linguaggio degli indiani d'America il termine "caucus", che nello Stato dello Iowa fa da apripista alle primarie, indicava la riunione dei capi tribù. Orbene, alla luce dei risultati che hanno smentito i sondaggi, viene da dire che quest'anno i pronostici e i riti della politica che la tribù dei candidati mette in campo per la corsa alla Casa Bianca potrebbero forse riservare svariate sorprese. Difatti nel Paese più anti-marxista dell'emisfero occidentale, dove persino i progressisti preferiscono definirsi "liberal" per evitare confusioni di genere, a emergere dal confronto è il democratico Bernard Sanders che ha il coraggio di dichiararsi socialista a tutto tondo. Una scelta di campo che quando il famigerato McCarthy terrorizzava i suoi compatrioti avrebbe stritolato l'arzillo senatore del Vermont nelle spire di un sistema becero e pedantesco. Tuttavia, malgrado le premesse, appare poco probabile che gli Stati Uniti possano virare al rosso sebbene questo primo assaggio degli umori dell'elettorato abbia portato alla ribalta parole, idee e concetti di sinistra graditi ai giovani, ma molto meno dall'establishment di Washington.

 

OSTACOLI. Ogni quattro anni lo Iowa, considerato un "over flying State", uno Stato da sorvolare senza perderci troppo tempo, richiama su di se l'attenzione del mondo per il mal di pancia che a scadenze regolari riesce a provocare agli stati maggiori dei partiti. Accadde quando le primarie in questo lembo di terra del Midwest spianarono la strada a Barack Obama fino a quel giorno poco noto al grande pubblico. Ora tocca a Trump e a Hillary Clinton, dati per super favoriti, fare i conti con gli ostacoli disseminati lungo il percorso che porta alla presidenza. Battuto lo scalmanato populista miliardario prestato alla politica, per l'ex segretaria di stato il pareggio all'esordio nelle urne è già un campanello d'allarme che aggiunge altro pepe a quel grande spettacolo che nella patria di Hollywood sono le presidenziali americane, capaci di cambiare il volto del Paese e di rianimare l'interesse dello stanco Vecchio Continente.

 

SOBRIETÀ. Quando si parla di gesti spettacolari per suscitare l'attenzione del pubblico non si troverà mai, a tale proposito, un riferimento a Sergio Mattarella, che all'infuori degli impegni ufficiali di solito è piuttosto schivo nel presentarsi sotto i riflettori. Questo tratto caratteristico del Presidente viene d'altronde sottolineato svariate volte dai corrispondenti accreditati a Roma che di lui tracciano il ritratto di un personaggio sobrio e di poche, ma misurate parole. Il quadro d'assieme che ne viene fuori è quello di un uomo di altri tempi che alla teatralità preferisce di gran lunga i gesti misurati, muovendosi come se la politica-spettacolo veicolata dalla televisione non esistesse. Agli occhi degli osservatori stranieri l'attuale inquilino del Quirinale rappresenta l'antesignano del post-berlusconismo che gli italiani stanno poco alla volta scoprendo con sentimenti di simpatia e stupore individuando nel Capo dello Stato l'autorevolezza di colui che ha la "schiena diritta", una bella metafora in antitesi alle frivolezze del "bunga-bunga". Alla destra che si danna per parlarne male, il boccone sarà rimasto in gola.

 

NOIA. Per oltre un decennio è stato il salotto privilegiato di Berlusconi su RAI1, la comoda poltrona da cui parlare al Paese praticamente indisturbato, senza che il padrone di casa osasse interromperlo con domande critiche o fuori posto. Altri tempi. A 20 anni dalla prima puntata anche "Porta a Porta", lo storico programma di Bruno Vespa, ora in seconda serata, ma che in passato era il centro della politica, non ha più lo stesso smalto dell'epoca in cui lui e Silvio formavano la coppia inossidabile del servizio pubblico, a quel punto decisamente un po' meno pubblico. Ma il troppo stroppia. Se è vero che il potere logora soltanto chi non ce l'ha, è altresì vero che ormai in seguito alla proliferazione delle reti si finisce col vedere sempre gli stessi personaggi che dicono le stesse cose a tutte le ore del giorno col rischio di annoiare e di fare calare gli ascolti per l'eccesso di presenzialismo. Una volta se non eri in tivù non eri nessuno, ora anche il Cavaliere misura le apparizioni rivendicando per se un altro ruolo, quello di "padre nobile" anche se non si sa bene di cosa.