La schiavitù è tutt'altro che scomparsa
di Renzo Balmelli
VERGOGNA. Un tempo nella biblioteca dei ragazzi non poteva mancare "La capanna dello zio Tom". Ora non usa più ed è un vero peccato perché, a giudicare dal rapporto dell'Unicef, la schiavitù è tutt'altro che scomparsa. Anzi, rispetto al romanzo della Beecher-Stowe, è addirittura peggiorata, ammesso che si possa peggiorare il peggio del peggio. Un film bello e forte come Django di Quentin Tarantino, ci aiuta a ricordare che in passato la tratta degli esseri umani importati dall'Africa imperversava soprattutto nelle ricche piantagioni di cotone degli stati sudisti. Ora la piaga dello schiavismo non risparmia nessun continente e conosce le forme più atroci dello sfruttamento, della prevaricazione, della prostituzione e della coercizione ai lavori forzati. Che una simile perversione altamente lucrativa possa continuare a esistere è una vergogna che interpella il mondo intero, senza eccezioni.
BRIVIDO. Dire a proposito di nazifascismo che malgrado l'orrore esiste un passato che non passa è quasi un'ovvietà. Eppure, per quanto sia una frase scontata, non se ne può fare a meno dopo le sguaiate manifestazioni seguite alla morte e ai funerali di Erich Priebke. Per un vecchio e arrogante ufficiale delle SS che meritava soltanto l'oblio, è stata riesumata, tra livori mai sopiti, la più ripugnante delle terminologie antisemite. Un brivido è corso lungo la schiena quando nell'entourage del boia si è cantata vittoria "perché non ci siamo fatti mettere i piedi in testa né dalle autorità né dagli ebrei". Sconvolgente! Se si considera che la malapianta dei rigurgiti nostalgici cresce di pari passo con la gramigna del populismo, ossia il solo movimento che raccoglie consenso a pochi mesi dalle elezioni europee, è lecito pensare che nelle Cancellerie del Vecchio Continente non si dormano sonni tranquillissimi.
PRECETTI. Quando si sentirà sola, è improbabile che Leonarda Dibrani , cacciata da Parigi come fosse una criminale, si consoli fischiettando "Douce France, cher pays de mon enfance", la canzone resa celebre da Charles Trenet. Per la ragazzina kosovara di 15 anni che gioca ancora con le bambole e ha il fidanzatino come nelle tavole di Peynet, quelle parole avranno sempre un retrogusto amaro. La sua espulsione è una macchia nella culla dei lumi, un mostro burocratico che aumenta la pena per il dramma dell'immigrazione esploso con i contorni della tragedia al largo di Lampedusa. Monsieur l'Eliseo che, per ricucire l'onta, offre alla giovane la possibilità di tornare, ma da sola, al danno aggiunge anche la beffa. Da Presidente socialista avrà qualche problema a chiarire un atteggiamento che fa a pugni con i sacri precetti di "liberté, égalité et fraternité".
SCISSIONE. Prima del "game over" politico del Cavaliere, il Pdl le prova tutte per prolungare l'agonia di un ventennio che ormai ha fatto il suo tempo. Chi lo sorregge a oltranza suddivide l'Italia tra coloro "che spingono per cambiare e chi resta arroccato sulla difesa di un presente inadeguato". Lo strano codice non spiega tuttavia in virtù di quali meriti documentati, l'ex premier sia da annoverare nella prima categoria, quella del cambiamento. Certo, Berlusconi ha fatto parlare tanto di sé, soprattutto all'estero, ma non per i suoi meriti di statista, né per come ha fatto progredire il Paese. Ciò che resta alla fine dell'esperienza è il bilancio fallimentare di una classe dirigente immobile che si è consumata nella demagogia, mancando tutte le promesse e sulla quale pende ora lo spauracchio della scissione. Sorge quindi il vago sospetto che per cambiamenti s'intendessero le leggi ad personam.
MELASSA. A volte tornano le accese e ferocemente partigiane discussioni sul ruolo degli intellettuali al tempo di Silvio B. Quando il tema riesce a spezzare il monopolio dei gossip sul cagnolino dell'ultima fidanzata, tra i contendenti sprizzano scintille che in altre epoche sarebbero state pretesto per un duello. A destra la categoria non è molto amata, a meno di non essere funzionale al sistema. Chi non rientra nel "mainstream" gradito ai censori, viene annoverato di forza tra gli "intellettuali del piffero", definizione che non è un elogio. Che gli intellettuali abbiano le loro responsabilità, è risaputo. Ma chiamarli falsi maestri, ipocriti, mitomani e ruffiani, è insultante oltre che immeritato. Significa liquidare in modo brutale e disonesto il contributo di chi si è fatto in quattro per impedire che il Paese sprofondasse in modo irreparabile nella melassa berlusconiana.