di Renzo Balmelli
DANNI COLLATERALI. Come in guerra, le conseguenze nefaste del Lodo Alfano, giustamente bocciato e respinto al mittente, arriveranno a ondate successive e si faranno sentire con effetti imprevedibili per un periodo destinato a protrarsi nel tempo. In gergo militare si chiamano “danni collaterali”, e a farne le spese sarà in primis l’immagine dell’Italia, già compromessa dalle intemperanze del premier. Ormai Berlusconi è un’anatra zoppa, un Cavaliere dimezzato, roso dal senso di impotenza che lo tormenta. E’ uno stato d’animo che a lungo andare potrebbe rivelarsi insidioso per il paese e la democrazia. In piu’ il premier avverte il peso crescente dei commenti negativi che arrivano dall’estero per la sua inveterata inclinazione a ridicolizzare la giustizia. Un pessimo esempio dato ai cittadini che rispettano la legge.
Non c'è quindi da stupirsi se dalla Lapponia alle isole Tonga, la sua permanenza a Palazzo Chigi risulti incomprensibile a chi non è addentro alle segrete cose della politica italiana. Anziché affrontare serenamente il verdetto, Berlusconi ha dato prova di una preoccupante fragilità istituzionale, oltre che emotiva, che non è certo di buon auspicio per rasserenare il clima. Sono lodevoli, certo, lodevoli, serie e responsabili le esortazioni a mantenere la calma venute dall’opposizione che invita a rispettare il verdetto delle urne. Ma la legittimazione elettorale di cui si fregia il signore di Arcore non puo’ essere il lasciapassare usato a piacimento per oltraggiare il Capo dello Stato e insultare pubblicamente Rosy Bindi e con lei tutte le donne. C’è una sorta di disperazione nell’ira del premier che si è visto sbriciolare il salvacondotto costruito su misura per la sua persona. Tutto è possibile in questo quadro, soprattutto il peggio, con un leader che non intende rinunciare alla pretesa di “primus super pares” per grazia divina. Adesso solo gli italiani potranno togliergli la fiducia. Sarà questa la vera sentenza.
FININVEST. Nel parterre della maggioranza si considera che la sinistra sia incapace di sconfiggere Berlusconi in campo aperto, in una normale, democratica, competizione elettorale. Di solito pero’ il livello della contesa é definito, oltre che dagli argomenti, anche dalla qualità dei competitori. A questo punto gli esponenti del PdL dovrebbero spiegare agli italiani quanto di democratico e normale vi sia nel comportamento del premier che usa il mandato ricevuto dagli elettori per accrescere e proteggere i propri affari. Quanto di democratico e normale vi sia nel colossale conflitto di interessi a cui il capo dell'esecutivo non ha rinunciato, tanto da scendere in campo personalmente per difendere Fininvest e il patrimonio di famiglia a causa del Lodo Mondadori. Quanto di democratico e normale vi sia tra i ranghi della maggioranza e delle sue testate d'assalto nell’apostrofare di anti-italiani, parassiti, intellettuali di merda, disfattisti coloro che non si piegano al diktat del pensiero unico. Quanto di democratico e normale vi sia nel Cavaliere prigioniero del suo populistico delirio di onnipotenza , nel leader concentrato unicamente su se stesso, sordo alle ragioni della politica, e ormai incapace di esprimere un solo atto di governo degno di questo nome. In quindici anni di potere nessun gesto, nessun picchetto d’onore, nessun compiacente salotto televisivo è riuscito a trasformare Berlusconi in uno statista. E si vede.
NOBEL. Che il Nobel per la pace dato a Obama sia una spina nel fianco degli ambienti conservatori si evince dall'ironia pesante che infiora i commenti provenienti da destra, a cominciare dal Wall Street Journal, orfano inconsolabile di Bush e della sua politica. In effetti per il neopresidente si tratta di un successo clamoroso che si inquadra in una scelta altrettanto clamorosa: mai un premio di tale prestigio era stato assegnato a chi ha appena iniziato il suo lavoro. Che ora gli avversari del primo afro-americano entrato alla Casa Bianca siano fuori dai gangheri non stupisce. Il livore dei circoli reazionari non è altro che l'ennesima dimostrazione di quanto essi siano fuori dalla storia, lontani dalla gente e da chi soffre. Ed è pure la riprova di quanto sia improbo, a dispetto delle crisi che stanno mettendo l'umanità a mal partito, affermare la supremazia dei grandi ideali rispetto al gretto materialismo della Realpolitik. Certo, Obama miracoli non ne puo' fare. Solo il Cavalier Silvio si crede l'unto del Signore. Altrettanto onestamente occorre ammettere pero' che ai buoni propositi di cui si fa instancabile alfiere non corrisponde ancora una mole analoga di risultati concreti da mettere in cascina. Eppure, checché se ne dica, il mondo ha urgente bisogno di pace, di serenità e di un futuro sgombro dal ricatto nucleare. Ma soprattutto ha bisogno di speranze. Percio', se oltre alla sorpresa si vuole cercare una chiave di lettura del riconoscimento, è da questa premessa che occorre muovere al fine di dare un senso compiuto al gesto decisamente controcorrente del comitato norvegese . Ai giurati di Oslo non è sfuggito il segno indelebile lasciato da Obama nelle vicende mondiali di questi primi dieci mesi del suo mandato, e da qui è maturata la loro decisione di realizzare un'apertura di credito eccezionale per colui che porta un messaggio culturale oltre che politico genuinamente innovativo. In quest'ottica, la scelta caduta sul leader democratico si colloca nel solco della grande lezione kennedyana che rivolto' come un guanto le polverose stanze del potere washingtoniano. "Gli uomini passano, le idee restano" diceva il giovane liberal bostoniano a cui fu rubata la vita e divenne poi un punto di riferimento insostituibile per le generazioni a seguire. Già, le idee. Perché a queste fa riferimento la motivazione quando sottolinea "gli sforzi straordinari per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli" che la nuova amministrazione americana ha posto al centro delle sue aspirazioni piu' nobili. Giustissima motivazione, ma da intendere come un voto di incoraggiamento, un premio alle buone intenzioni, piu' che un voto di profitto. E cio' spiega il "wow" quasi fanciullesco espresso a caldo dalla Casa Bianca che esprime meraviglia per il gesto inaspettato, ma anche la consapevolezza di non potere tradire le attese dell'umanità. Ne ha ben donde chi se ne deve fare carico. I dossier sono complessi, le questioni aperte tantissime. L'Afghanistan, l'Iraq, le provocazioni iraniane, il Medio Oriente, il disarmo, l'economia malata ed i problemi interni, a cominciare dalla riforma sanitaria, formano una ragnatela non semplice da dipanare. Senza il giusto approccio e con avversari determinati a mettere i bastoni fra le ruote al presidente, il Nobel potrebbe trasformarsi in
un regalo avvelenato. Per far si che cio' non avvenga bisogna por mano senza esitazione al raggiungimento dei maggiori obiettivi. La posta in palio, posta che non piace per nulla ai mercanti di morte, è un nuovo ordine mondiale fondato sul dialogo e una maggiore equità. Con un taglio netto rispetto al passato repubblicano, Obama si è presentato ai suoi simili come colui che vede la guerra come ultima possibilità e non come una scelta ideologica a priori. Alla diplomazia delle cannoniere contrappone la sua politica della mano tesa , ormai parte integrante del new-deal che la destra osteggia, ma che il mondo attende con trepidazione. Non sempre la capacità persuasiva, il carisma oggi un po' claudicante e la storia personale del presidente sono bastate finora a convincere avversari, nemici, fanatici , a piu' ragionevoli consigli. Occorre fare di piu'. Obama è d'altronde il primo a sapere che ora le pressioni su di lui aumenteranno e che l'ingresso nella galleria dei laureati di Oslo comporta una chiamata all'azione di fronte alle sfide del ventunesimo secolo alla quale è vietato sottrarsi. Il tempo dirà se le promesse diverranno realtà oppure se il premio sia stato prematuro. Di una cosa pero' possiamo essere assolutamente certi: per la pace "non è mai troppo presto".