di Renzo Balmelli
DI VITTORIO - Puo’ darsi che la fiction della RAI su Giuseppe Di Vittorio non fosse priva di qualche ingenuità narrativa tipica di questo genere. Se pero’, al di la della controversa esegesi critica, essa è valsa almeno a restituire il diritto alla memoria al padre nobile del sindacato, forse non ha completamente fallito il suo scopo. Personalità come Di Vittorio sono diventate merce rara e il grande successo di pubblico ottenuto dallo sceneggiato conferma quanto se ne avverta il bisogno mentre la crisi peggiora ed estende le sue ricadute. Quando le condizioni si fanno difficili, il costo maggiore del disastro finisce sempre, ieri come oggi, col gravare sulle fasce piu’ deboli. All’epoca in cui Di Vittorio combatteva le sue battaglie per la dignità dei lavoratori, la destra reazionaria e latifondista non esitava a stringere alleanze con i regimi totalitari, nella speranza di uscire indenne dalla grande depressione che essa stessa aveva provocato. E niente permette di escludere che all’occorrenza sarebbe disposta a rifare la stessa cosa per salvarsi la pelle. A colpire i telespettatori, anche i piu’ smaliziati, è stato appunto il significativo passaggio in cui il regista ha fatto rivivere a mo’ di leitmotiv il “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo che ben simboleggia la resistenza alle derive autoritarie. In questo senso la lezione di Di Vittorio ha un valore esemplare: ignorando il passato non si sa più neanche prevedere il futuro.
CAUDILLO - Nasce il Pdl e la destra si rifà il trucco. Ma sotto il cerone i volti sono pallidi e tesi. L’irruenza “eltsiniana” con cui il Cavaliere cavo’ dal cilindro il partitone del “predellino” ha avuto l’effetto di un rullo compressore che ha spianato ogni parvenza di democrazia interna. Dice di lui Vargas Llosa al Corriere della Sera: è un caudillo moderno, definizione che non è esattamente un complimento. Forse qualcuno ancora ricorda come vide la luce il primo embrione del Pdl . Le azioni del premier a quel punto stavano per toccare il fondo, ora sono gli altri a dovere chiudere la storia inchinandosi alla velleità egemone del capo. Punzecchia Lina Sotis:" Silvio e Gianfranco, la fusione dolce. Dolce per il primo, amara per il secondo". Tempo fa, quando il suo mondo girava ancora dalla parte che lui ritiene giusta, La Russa, con il linguaggio temerario di cui è campione imbattibile, affermo’ che “ abolire la fiamma tricolore è come tagliarsi gli attributi”. Nonostante l’impeto del ministro, la virile ostentazione non è valsa a evitare il fatal declino. Il simbolo dell’epopea neo e postfascista è finito per sempre in soffitta lo stesso giorno in cui An saluta e se ne va. Che dolore per i camerati di vecchio e nuovo conio. Se cercassimo una metafora che meglio si adatta a Gianfranco Fini potrebbe venirci in soccorso l’apologo di Peter Handke sulla solitudine del portiere prima del calcio di rigore. E solo, molto solo, lo è davvero il Presidente della Camera mentre il Cavaliere batte dagli undici metri e la sua creatura si scioglie per confluire in una “liaison” col Pdl che ai suoi occhi ha ben poco di romantico. Per non essere “berlusconizzato” , l’ex leader della defunta An si accinge a entrare nel nuovo partito senza una carica che ne caratterizzi il rango e il ruolo di decano onorario della real casa di Arcore. A dire il vero, non si capisce tanto bene se si tratta di scelta consapevole o di necessitata virtù. A giudicare dalla tensione che serpeggia tra i due schieramenti sono piu’ spine che fiori d’arancio a pungere nel di’ del matrimonio. E guai a parlare di delfini. Berlusconi appare piu’ determinato che mai a tenere saldamente in pugno il Pdl, convinto che alle europee, grazie ai suoi rigori, non ci sarà partita. La destra sogna il colpo del definitivo ko per la sinistra , sotto la guida illuminata del grande timoniere Silvio I. Eppure, incredibile ma vero, a dispetto dei pronostici bulgari, la maggioranza non sembra affatto tranquilla. Per rendersene conto, bisognava vedere con quale animosità è stata fatta a pezzi la prima comparsa in tv di Prodi dopo oltre un anno. La divertita, inoffensiva ed ironica intervista concessa a Fabio Fazio è bastata per fare venire un forte mal di pancia a “ tutti gli uomini del presidente”. Il ricordo del duplice sgambetto del Professore è una ferita che continua a sanguinare. Ma c’é dell’altro. Alcuni sondaggi meno addomesticati evidenziano se non proprio un’inversione di tendenza, almeno sensibili oscillazioni nel tasso di popolarità del governo. Sotto la spinta della crisi, la comunicazione carismatica del verbo berlusconiano che finora è stata una carta vincente non funziona piu’ come prima. I messaggi subliminali della pubblicità mescolati alle cose politiche perdono la loro efficacia e il risultato si vede: dal mese di settembre, quando la squadra guidata dal Cavaliere aveva raggiunto la massima popolarità, la fiducia nella maggioranza è calata vistosamente di dieci punti. Allo stesso tempo è cambiato pure lo scenario politico complessivo che mostra qualche timido segno di recupero del principale partito di opposizione , rigenerato dalla cura Franceschini . Sul piano etico Berlusconi offre poche credenziali al paese e l’ elettorato comincia forse a intuire che la felicità “ catodica”, malgrado la rutilante coreografia, è una balla sacrosanta che non migliora la vita.
AZZERARE - La Perestroika del duemila pesca nel glossario dell’informatica. Ora si chiama “ reset”, azzerare, verbo che Obama ha fatto suo per indicare la volontà di ridare slancio alla diplomazia planetaria, ricominciando da capo. A dispetto della crisi che assorbe la maggior parte delle sue energie, il presidente americano è seriamente intenzionato a perseguire la tabella di marcia della sua politica estera,nella consapevolezza che il “ reset” sia ormai non solo indispensabile, ma urgentissimo. La storica apertura all’Iran in occasione del “Nowruz”, il giorno nuovo, indica con chiarezza che Obama non contempla l’aggressiva retorica dei repubblicani tra le sue opzioni in campo internazionale. Anche le modalità scelte per tendere la mano agli ayatollah rappresentano una svolta rispetto alle pretese egemoniche dell’America di Bush. Il videomessaggio in lingua farsi è per certi versi la prosecuzione della diplomazia del ping-pong che segno’ un nuovo inizio nei rapporti con la Cina. Il difficile pero’ deve ancora venire. La palla è passata ora nel campo di Teheran e l’annuncio di Obama, perfetto nella scelta dei tempi, sarà conforme alle attese soltanto se gli iraniani daranno una risposta razionale, non viziata dai rancori, dalle derive integraliste e dalla propaganda orchestrata ad arte. Ufficialmente i due paesi non si parlano e l’Iran è stato inserito nelle nazioni “ dell’asse del male” per le sue inquietanti mire nucleari. Se il programma arrivasse alla bomba atomica, andrebbe inevitabilmente nella direzione peggiore. La strada comunque pare segnata. L’esortazione al “ reset” era d’altronde già stata anticipata nella famosa scatoletta con tanto di dicitura che Hillary Clinton aveva offerto al suo collega russo Sergei Lavrov al fine di recuperare il clima distensivo iniziato negli anni ottanta da Gorbaciov e Reagan. L’iniziativa coglie un punto fondamentale, perché senza un accordo con la Russia per impedire la proliferazione delle armi nucleari e senza dialogo con l’Iran è impossibile stabilizzare una regione che ribolle come un vulcano. La via della distensione passa da qui e cio’ spiega quanto sia alta la posta in palio della partita negoziale avviata dalla Casa Bianca a guida democratica.