giovedì 7 aprile 2016

Quanti tragici errori - Quante strategie sbagliate

di Renzo Balmelli 

 

IDRA. Dall'Iraq alla Siria, passando per la Libia e il miraggio precocemente impallidito della primavera araba, l'Occidente e il Cremlino non avrebbero potuto muoversi in modo più maldestro di quanto hanno fatto nel ribollente calderone medio orientale. Col risultato invero sconfortante di non riuscire a contrastare il terrorismo jihadista, fenomeno proteiforme capace di riprodursi come l'Idra a sette teste e ormai in grado di colpire a piacimento. La silente armata dei kamikaze che spunta da ogni dove a dispetto dei controlli e delle retate firma col sangue l'ennesima carneficina nella capitale belga, l'ennesimo oltraggio a ciò che ci è più caro: la vita delle persone che amiamo. Qualsiasi cosa sia il mostro senza volto che semina lutti e dolori, esso si insinua nei gangli sani della società con la sua arma più potente; l'arma del caos, della paura, del panico sfruttando le nostre fragilità. Se non si riusciranno a rimuovere le cause dello sconquasso geo-politico che sconvolge quelle martoriate regioni, altre Parigi, altre Bruxelles verranno a turbare le nostre Pasque.

 

FURIA. E adesso dove e quando colpiranno di nuovo? Se Parigi era l'attacco al cuore della cultura e dello spettacolo, se con Bruxelles si è voluto colpire oltre al Paese che ha arrestato Abdelsalam Salah anche l'Europa, che però mai si piegherà al folle ricatto, ora cresce l'angoscia per individuare il prossimo obbiettivo sensibile e simbolico della furia iconoclasta. Quella furia alla quale, forse per una strana forma di pudore diplomatico, si esita a dare il suo nome di guerra informale e asimmetrica, come in effetti è. Nello sgomento che ci coglie davanti alle tante vittime innocenti allineate nella hall di un aeroporto e nella stazione della metropolitana, ci sentiamo impotenti ed esposti a rischi inauditi. Se ne può uscire, certo, se ne può uscire restando uniti e mettendo in comune i servizi di "intelligence" al di là delle prerogative nazionali. La salvezza però consiste soprattutto nella capacità di elaborare strategie di lungo respiro in grado di coinvolgere attivamente la società civile, che già lo ha saputo fare in altre, non meno temibili circostanze, quando sotto la sferza delle più atroci dittature tutto sembrava perduto.

 

LACUNE. Anche nella scelta delle politiche atte ad affrontare l'emergenza dei migranti, emergenza che si sta rivelando come la più grave tragedia umanitaria del secolo, sembra non vi siano alternative e strategie condivise. Non che si rimanga inoperosi. Tutt'altro. Tuttavia prevale il convincimento che nessun accordo sulla sorte di milioni di individui gettati nella disperazione potrà mai rivelarsi veramente efficace e duraturo, se il peso della "Realpolitik" finirà con l'essere predominante rispetto all'impegno a tutela di chi soffre. In quest'ordine di idee anche l'intesa UE-Turchia si presenta piuttosto lacunosa. Sull'altare degli interessi strategici si mettono a repentaglio valori e conquiste nel campo dei diritti umani davanti ai quali la comunità europea non può abdicare. Appena elaborata l'intesa con Ankara, la prima reazione è stata quella cara alla falange populista di blindare le frontiere, anziché immaginare una seria, ragionata e costruttiva politica dell'accoglienza. Qualcosa stona ed è stridulo.

 

SALE. Bono, leader degli U2, citava la frase pronunciata da un rifugiato, un ragazzo: "Non sono pericoloso, sono in pericolo". Nel dramma dei profughi ciò che manca è una voce che al di là della terminologia di circostanza sappia risvegliare le coscienze e riesca a mobilitare le folle, strappandole dal rischio dell'indifferenza e dall'assuefazione. La Siria non è il Vietnam. Forse è addirittura peggio, e mentre si scrive l'ennesimo editoriale sull'umanità abbandonata, si cercherà invano qualcosa che assomigli allo slancio degli anni sessanta – settanta, quando, salendo dal basso, esplose la contestazione giovanile, la contro-cultura dei figli dei fiori che diede un bello scossone alla pedagogia tradizionale. In questa società con pochi ideali, immersa nel torpore dei telefonini, tutto ciò latita, manca il sale della sana rivolta, mentre la destra ingrassa sulle disgrazie di tanta povera gente. Ahinoi, "fate l'amore e non la guerra" sembra il pallido ricordo di un'epoca in cui ci si poteva ancora illudere di riuscire a creare un mondo migliore.

 

CORAZZA. Nell'epoca della comunicazione globale è stato perfino scomodato il linguaggio di Star Wars per conferire allo storico viaggio di Obama a Cuba, dopo un lungo silenzio durato più di mezzo secolo, l'aura di una saga politico-mediatica oltre i confini dell'impero. In realtà la missione del presidente americano, che ha fatto saltare la mosca al naso ai repubblicani, più che un copione si è rivelata un primo passo concreto verso la completa normalizzazione dei rapporti tra gli USA e un Paese che col suo socialismo sopravvissuto a temperie e privazioni ha rappresentato una eccezione nel panorama latino-americano. Di cammino ne resta comunque ancora tanto da fare. All'Avana si è fatto capire all'ospite che il dialogo iniziato sullo sfondo di un'apertura obbligata non sarà il grimaldello per scalfire la corazza rivoluzionaria, non subito almeno, tanto più che ancora non si intravvede l'abolizione dell'assurdo embargo, ormai privo di qualsiasi ragion d'essere. Tuttavia, di solito quando la storia cambia e fa i primi passi in un'altra direzione, vuole andare fino in fondo. Il merito di Obama e di averle dato una spinta salutare e benefica. A meno che il furore ideologico del passato faccia lo sgambetto alla distensione se per disavventura la Casa Bianca finisse nelle mani dei reazionari.

 

CESPUGLIO. In un celebre "divertissement" letterario apparso sul finire degli anni ottanta lo scrittore Paul Auster definì Bush, che in inglese significa cespuglio, come un arbusto velenoso di una specie estinta. Ai nostri giorni l'autore di libri in cui si è spesso interrogato sul futuro del suo Paese con opere che scandagliano le angosce e le nevrosi dell'uomo moderno, dovrebbe forse ammettere invece che la specie degli arbusti velenosi purtroppo non è affatto in via di estinzione. Anzi è ancora molto diffusa, ha le fattezze di Donald Trump nonché quelle di tutti i suoi sostenitori in patria e all'estero che provano – si spera senza riuscirvi – a spingere gli Stati Uniti verso territori poco frequentabili e ancor meno raccomandabili. E di portarli alla deriva sotto la guida di un narcisista intemerato, convinto di essere il più grande presidente che Dio ha mandato sulla Terra. Vien proprio da dire: Dio salvi l'America!