lunedì 30 gennaio 2017

Non proprio un inno alla gioia

di Renzo Balmelli

 

VALORI. Evocare figure controverse come Trump per contestare la legittimità della sua elezione, per altro mai messa seriamente in dubbio, significa perdere di vista gli scogli disseminati da una presidenza che sembra avere mandato in corto circuito l'immagine che avevamo dell'America. L'aspetto principale ed emblematico sul quale dovremmo invece concentrare la massima attenzione -e che tra l'altro è stato molto bene evidenziato dall'imponente manifestazione planetaria delle donne – è la legittimazione etica e morale del Presidente, delle sue scelte e del suo modo di porsi di fronte alla nazione e alla storia. Valori che al 45esimo capo della Casa Bianca palesemente non interessano. Dicono che la sua ascesa sia frutto del nuovo che avanza. Ma per chi? Se già comincia ora, a pochi giorni dall'insediamento, a costruire i primi, pesantissimi muri e li sbandiera come trofei di guerra, coglie nel segno Roberto Saviano quando afferma che "questo nuovo è terribile". Terribile perché istiga all'odio e vellica i peggiori istinti. Una prospettiva da brivido che non è proprio un inno alla gioia.

 

ABBAGLI. Fingere non è una licenza d'autore concessa solo ai poeti. Da una eternità il potere si è appropriato del celebre aforisma di Fernando Pessoa a proposito del poeta fingitore e ne fa un uso assai disinvolto per diffondere il suo messaggio deliberatamente ingannevole. Adesso poi grazie ai social media ed ai veleni del web mentire è diventato uno strumento ancor più insidioso per intercettare qualunque tipo di rabbia – fatta anche di bisogni veri – e per mietere consensi al d fuori dei tradizionali canali di comunicazione. Esemplare a tale proposito è lo slogan efficace anche se inquietante di Trump teso a "far tornare grande l'America". Slogan che sembra avvalorare il ritorno alla tradizione del new deal, ma che realtà è una strizzatina d'occhio alle lobby più chiuse. Al massimo serve a innescare abbagli di breve durata, a tenere buona la piazza, con il consenso scontato e interessato degli yes men, pronti a vendere l'anima per un posticino sul carro del vincitore.

 

EREDITÀ. Ciò che fa letteralmente imbufalire i repubblicani, è la consapevolezza di avere vinto la partita per la presidenza, seppur senza il conforto del voto popolare, ma di avere perso la battaglia più importante. La battaglia finale con la quale anelavano ardentemente a sbarazzarsi di Obama e liberarsi, come scrivono certe gazzette dell'italica destra, del “negretto” che per otto anni è stato il loro peggiore incubo. Poveri illusi! Il Potomac dovrà macinarne ancora tante di acque non sempre limpide sotto i ponti di Washington prima che un tycoon qualunque riesca (ma è poco probabile) a cancellare dalle sue sponde lo stile, la grazia e il coraggio messi in campo dal primo presidente afro-americano e da altri grandi leader democratici, da Kennedy a Clinton. A dispetto degli errori che hanno potuto commettere (anche i miti sbagliano) la loro eredità capace di riscaldare gli animi, alimentare utopie sublimi e rendere meno banale il risveglio è un patrimonio che nessuno potrà mai cancellare.

 

SPINTE. Quando vanno in onda le rumorose adunate dell'estrema destra come quella indetta giorni fa a Coblenza, non c'è da scherzare. Nella città alla confluenza tra il Reno e la Mosella abbiamo assistito all'anteprima di ciò che potrebbe diventare l'Europa se questi schieramenti, irretiti dalla tentazione dell'uomo forte, prendessero il sopravvento. Il secolo scorso, prima della Grande guerra e poi negli anni Trenta, l'ultra-nazionalismo ha trascinato con sé frustrazioni e violenze. E quello di oggi fa altrettanta paura. Nel continente sono all'opera forze che si sono messe in testa di snaturare la democrazia e che eccitate dal vento che spira dall'altra parte dell'Atlantico nutrono ambizioni elettorali che sarebbe irresponsabile prendere sotto gamba. Non sono macchiette, ma un reale pericolo. Chi nel Novecento guardò dall'altra parte o finse di non vedere ebbe poi tutto il tempo di pentirsi amaramente per non avere considerato la potenza devastante delle spinte disgregatrici. Nel giorno della memoria, che ricorre domani, una lezione terribile, da non dimenticare mai.

 

MISSIONE. A meno di un miracolo, le sorti del partito socialista francese in vista delle elezioni presidenziali sembrano segnate. Nell'elegante palazzo dell'Eliseo a Hollande, che con una scelta discutibile ha rinunciato a presentarsi dando l'impressione di abdicare dallo Stato, molto verosimilmente non subentrerà un altro esponente della sinistra. In una situazione tanto difficile, con una torsione del testo originale, di cui chiediamo venia, verrebbe da dire “Allons enfants de la gauche”. Ma il fatidico giorno della gloria non sembra a portata di mano. Non ancora. In ordine sparso le energie sono concentrate nel tentativo di arginare le truppe minacciose di Madame Le Pen, o le bravate di Salvini, autore di una pagina orrenda di cinismo mediatico nel pieno della tragedia. Ma se la missione è nobile, non di meno la sinistra andrà alle urne debole, incapace di riunirsi per tenere alto il vessillo di una grande idea che non muore, ma che ora vive piuttosto male. E non è difficile immaginare chi farà man bassa delle sue divisioni.

 

PASTICCIO. Come tutte le decisioni di pancia, strappate facendo leva sull'emotività e la paura, anche la Brexit si sta rivelando un colossale pasticcio politico e istituzionale. Dopo il referendum per l'uscita dal­l'Unione Europea il Regno Unito si è scoperto di colpo disunito e in­deciso a tutto. Il sentimento di insicurezza non ha fatto che aumen­tare in seguito al verdetto della Corte suprema che impone l'obbligo di ottenere l'approvazione del Parlamento prima di avviare le pratiche del divorzio da Bruxelles. Ora bisognerà aggiustare le procedure per evi­tare che il conflitto di competenze con il governo della premier May, che incassa una sconfitta simbolicamente importante, non suoni come una inaccettabile sconfessione del verdetto popolare. La Gran Bretagna se ne andrà comunque, ma i tempi si allungano e le mirabolanti pro­mes­se di un futuro radioso senza il fardello degli impegni comunitari cominciano a fare acqua da tutte le parti.

 

INCANTESIMO. A 82 anni è morto Eugene Cernan, l'ultimo astronauta ad avere posato il piede sulla Luna. Prima di lui altri dodici cosmonauti, dodici come gli apostoli, tutti statunitensi, si sono posati sul nostro satellite per esplorarne la superficie, raccogliere campioni, riportare a terra emozioni precluse ai normali essere umani. Con la scomparsa di Cernan si chiude il cerchio di una avventura iniziata con Neil Armstrong che la consegnò alla storia con la memorabile frase " un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l'umanità". Al di là dell'entusiasmo di chi ne fu protagonista, la reale portata dell'im­presa resta però un tema oggetto di controversie. Già Jules Verne e Méliès seppero costruire racconti fantastici e di grande richiamo sui viaggi siderali, ma anche oggi, a 45 anni dell'ultimo lancio, l'allunaggio appare ancora come una bella incompiuta, se non per motivi di prestigio nelle ricorrenti vampate della guerra fredda. Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? A dispetto dei curiosi terrestri, il canto notturno di un pastore errante dell'Asia messo in poesia da Leopardi non svela i suoi segreti e da lassù l'astro più cantato al mondo conserva l'incantesimo inviolabile che fa sognare gli innamorati.