giovedì 7 febbraio 2019

Butta la colpa su un nemico

 di Renzo Balmelli

 

POLEMICHE. Quando le cose non vanno per il verso giusto, inventa un nemico cui dare la colpa. Così si ragionava già ai tempi dell’antica Grecia, ed a questa massima, mai caduta in disuso, sembra ispirarsi il ruvido attacco di Roma alla “perfida” Francia e al presidente Macron. Quale molla abbia davvero determinato la dura filippica al punto da creare un momento di forte tensione diplomatica tra due Paesi amici da lungo tempo, non è molto chiaro. Si può immaginare che il nuovo patto franco- tedesco possa risultare sgradito a Palazzo Chigi per mille e svariati motivi. E non concorre a rasserenare l’atmosfera il pesante taglio alle stime di crescita per l’Italia, definita a rischio dal FMI, che ribalta le ben più rosee previsioni del governo Ma da lì a crearsi nemici con le proprie mani anziché prediligere la via del dialogo non pare una scelta molto giudiziosa. A maggior ragione in una fase come questa che richiede prudenza e nervi saldi considerando tra l’altro ciò che accade oltre Atlantico. All’annuale Forum economico di Davos manca infatti l’America a causa della cocciutaggine di Trump. Presentarsi nella località grigionese, dove si incontrano i grandi pianeta, preceduti da un episodio poco gradevole, di sicuro non giova all’Italia che ha invece un ruolo centrale da svolgere sul piano internazionale anziché avventurarsi in polemiche che non portano da nessuna parte.

 

TRUCCO. Quando in sala volano i miliardi promessi dal governo come fossero bruscolini, tra il pubblico si leva un mormorio di disappunto. Basta con i giochi di prestigio. Lo spettacolo è vecchio, visto e rivisto mille volte, senza neppure avere la grazia vittoriana della commedia che a Londra va in scena da quasi mezzo secolo. Neanche il cambio degli attori sotto le luci cangianti dal giallo al verde del palcoscenico romano è riuscito a strappare gli applausi. C’è stato sì qualche tentativo di aggiungere un po’ di pepe alla rappresentazione con alcuni accorgimenti plateali. Ma il loro effetto mediatico ha avuto vita breve. Né l ‘enfasi esagerata del “decretone”, né la trovata del mega-show per l’arresto di un terrorista come Cesare Battisti, hanno provveduto a cancellare le ombre della crisi. Tra felpe d’ordinanza e giubbotti della polizia indossati all’uopo, sembrava di assistere a una sceneggiata come ai tempi dell’infausta stagione berlusconiana. Ma oggi, dopo il primo, fugace attimo di stupore, quei trucchi ormai non se li beve più nessuno.

 

PAROLE. Fra i tanti e meritati tributi riservati a Fabrizio De André a vent’anni dalla scomparsa, molti a giusta ragione hanno voluto sottolineare il grande rispetto che l’artista aveva per le parole. Nelle sue composizioni non una è fuori posto. Le usava con delicatezza, quasi con pudore, per quei suoi testi tutti diversi dagli altri che fanno di lui un Poeta della canzone nel senso più vero del termine. Se tornasse in vita adesso, in un’epoca in cui perdono peso anche i voltafaccia più clamorosi, l’autore di Marinella e altri capolavori resterebbe sconvolto dall’utilizzo sconsiderato delle parole di cui si macchia il potere. Nei suoi versi De André parlava di diseredati, di emarginati che appartenevano a un mondo di cui nessuno voleva occuparsi. Vent’anni dopo, tra notizie false e lo sciacallaggio elettorale sulla pelle dei migranti, quelle parole così dense di significati troppo spesso si perdono nel vuoto, trasformandosi in un cinico strumento per raccogliere consensi.

 

MEMORIA. Si poteva pensare che dopo l’Olocausto l’umanità fosse vaccinata contro il virus dell’odio antisemita. Ora col pianto nel cuore e la tristezza nell’anima scopriamo che l’antidoto non è ancora stato prodotto. L’ intolleranza contro gli ebrei, stuzzicata ad arte dai cattivi maestri, anziché diminuire d’intensità sta diventando tragicamente normale. In un crescendo inaudito di idiozia e becera violenza, gli istinti più riposti dell’uomo vengono a galla tra incontrollate esplosioni di razzismo che trovano non solo negli stadi ma anche fuori un terreno fertile al colmo dell’abiezione. Come aveva intuito Primo Levi è accaduto e può ancora accadere. La banalità del male sopravvive nel tempo alla tremenda lezione di coloro che ne furono i consapevoli artefici. È una questione di mentalità, di scarsa educazione e poca cultura che va combattuta con la massima determinazione. A questa deriva va posto un argine. E se qualcosa dev’essere fatto subito è di impedire che la Giornata della Memoria, celebrata in questi giorni, venga soverchiata, nella totale indifferenza, dalla normalizzazione dell’antisemitismo e finisca col diventare la Giornata della Memoria smarrita.

 

SFIDUCIA. Basta leggere le cronache quotidiane per rendersi conto che non è poi così fuori luogo la domanda sul pericolo rappresentato dal fantasma del fascismo e di un suo possibile riapparire. La “vexata quaestio” è tornata alla ribalta con l’irruzione sulla scena di movimenti che fanno della difesa identitaria dalle ondate migratorie uno dei cardini della loro azione fondata su una discutibile pretesa di superiorità. Finora, grazie agli ammortizzatori democratici di cui dispone la società, le minacce incombenti sono state rintuzzate e non si sono mai realmente concretizzate. Il discorso tuttavia potrebbe mutare radicalmente se nell’opinione pubblica dovesse prevalere il pessimismo sulla possibilità di cambiare il mondo e renderlo migliore. Troppe volte infatti si è avuta la dimostrazione che la sfiducia può essere l’anticamera dei peggiori sistemi totalitari.

 

RESISTENZA. Europa si, Europa no. La sfida è lanciata. Ormai è dietro l’angolo l’appuntamento con il cruciale voto di maggio per il Parlamento di Strasburgo che non sarà un duello in punta di fioretto bensì un tintinnare di spade tra due concezioni inconciliabili sul modo di intendere e volere la Comunità. Una aperta e votata alla solidarietà tra i popoli. L’altra retrograda e ossessionata dai muri, dalle frontiere e dai porti ermeticamente chiusi. Se non si correrà ai ripari il rischio sarà di risvegliarsi un giorno in un continente a trazione sovranista. Ovvero alla mercé di quel movimento seguace dell’intolleranza che malgrado i tardivi ripensamenti elettorali dei suoi leader, in realtà non ha nessuna intenzione di riformare l’UE, ma solo di affossarla. L’Europa come la immaginiamo, come la amiamo e come vorremmo che fosse, non è mai stata in così grave pericolo da quando l’occidente sembra avere perso la bussola. Dalla prova delle urne se ne esce in un modo solo, spazzando via le idee false e bacate e rimettendosi in sintonia con una parola chiave che più di una volta si è rivelata decisiva per salvare i valori nei quali crediamo: Resistenza. Che non è retorica, ma un principio irrinunciabile.

 

AFFIDABILITÀ. Per avere dato a questo particolare tipo di opere due capiscuola come Beckett e Pinter è venuto quasi naturale paragonare l’incredibile caos della Brexit al teatro dell’assurdo. La situazione è talmente bizzarra da arrivare al punto di paragonare l’incidente stradale occorso al Principe Filippo all’impatto frontale che avrebbe il divorzio di Londra da Bruxelles nelle peggiori condizioni. Il confronto tra le vicende a volte burrascose della Casa reale e la bufera in cui si trova impegolato il governo conservatore, non ha mancato di suggerire irriverenti e pungenti metafore sulle condizioni in cui versa il Regno Unito alla vigilia di quello che è stato definito il “Car crash Brexit”. Confusione, smarrimento e frustrazione sono i sentimenti che predominano tra gli elettori favorevoli o contrari all’uscita dall’UE, ma tutti convinti, in un modo o nell’altro, che nulla potesse guastare l’atmosfera un po’ retrò e tanto british dell’immancabile e tè delle cinque da consumare nell’atmosfera di letizia e serenità. Atmosfera che ora si è smarrita tra la nebbia d un incerto futuro. Profonda è quindi la delusione dei sudditi di Sua Maestà per il declino di quel simbolico rito su cui poggiava la certezza inossidabile nelle istituzioni e nella loro granitica affidabilità.

 

 

 


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