mercoledì 11 ottobre 2017

Una riga di zeri non basta

di Renzo Balmelli

SOLIDARIETÀ. Sulla terra il motore di chi lotta contro le prevari­ca­zioni è sempre acceso. Purtroppo, nonostante l'abnegazione di chi si impegna per il bene degli altri, il quadro anziché migliorare peggiora, sopraffatto dall'egoismo e dall'avidità. In un mondo segnato dal cal­vario dei migranti in fuga dalle guerre e dai soprusi dell'uomo sull'uo­mo, l'abisso tra ricchi e poveri assume sempre più proporzioni che non è esagerato definire mostruose. Una di queste righe non basta per alli­neare gli zeri necessari a calcolare i patrimoni in mano a pochi privi­le­giati. Qualcosa come 70 mila miliardi di dollari o giù di lì. Eppure non è affatto impossibile immaginare di mettere in piedi un sistema capace di riscattare da una vita di stenti tutti coloro che sono condannati all'esilio nel cono d'ombra di un benessere che non conosceranno mai. Andando oltre la carità pelosa, basterebbe uno scatto di solidarietà pura e condivisa per porre rimedio ai guasti delle ingiustizie. Il messaggio però non sembra fare breccia nel resort esclusivo dei Paperoni trincerati in un loro ovattato e invalicabile Eldorado.

PERICOLO. Alle prese con il ginepraio della Brexit, allarmata dal­l'esito delle elezioni tedesche e le loro ricadute estremiste, in difficoltà nell'elaborare una strategia concordata per affrontare l'emergenza dei profughi e in ultima analisi esposta alla minaccia del terrorismo, l'Eu­ro­pa unita si trova confrontata a una quantità di problemi che provo­ca­no la rabbia degli esclusi. Per tutta risposta agli interrogativi che ci assillano, da qualche tempo sembra prevalere, con una stupefacente contorsione del linguaggio, la tendenza a considerare destra e sinistra come categorie arrugginite. È una tesi che lascia perplessi non tanto per la terminologia, quanto per il tentativo di omogeneizzare idee, culture e visioni che non potranno mai stare sullo stesso piano. Quali disastri possa provocare la deriva populista, spesso intinta nell'inchio­stro della xenofobia, è ormai sotto gli occhi di tutti. Sempre più mar­cato si avverte di converso il bisogno di programmi sociali chiari, profilati e capaci di recuperare la vera anima di sinistra senza la quale incombe il pericolo del qualunquismo, quello sì davvero arrugginito.

STRAPPI. È difficile dire se esista un ritorno di fiamma per le piccole patrie di cui non si conserva un buon ricordo. In Catalogna la demar­ca­zio­ne tra coloro che aspirano all'autodeterminazione e chi invece con­sidera la stabilità all'interno dei propri confini come un valore comune che merita di essere difeso ha evidenziato che il problema esiste ed è profondo. Lo scontro tra le ragioni degli uni ed i torti degli altri, de­fla­grato durante il referendum nel peggiore dei modi per un Paese civile, non ha certo contribuito a creare un clima propizio a future intese su basi pacifiche. All'opposto gli strappi al tessuto democratico paiono difficili da riassorbire in tempi brevi non solo in Spagna, ma anche per le loro ricadute nel continente. Ogni spinta all'autonomia fa storia a sé. Nel Kurdistan il referendum contestato degli scorsi giorni è stato un modo per rivendicare la fine di una diaspora che priva il popolo curdo del diritto ad avere una nazione. Anche qui è mancato il dialogo, così com'è mancato nei confronti del popolo catalano per un irrigidimento dei fronti che non promette nulla di buono.

DISASTRO. Berlusconi e Trump non hanno nulla in comune, tranne il vistoso campionario delle promesse mai mantenute. Se i biografi del­l'ex Cavaliere tendono a stendere un velo pietoso per fare credere quel­lo che fa piacere credere, negli Stati Uniti i nodi per il Presidente ame­ri­cano stanno venendo al pettine a velocità impressionante. Ormai a Washington la domanda che circola con maggiore insistenza consiste nel capire che cosa resta del trumpismo e dei suoi proclami. Messo in difficoltà dalla “Alt-right” (la destra alternativa repubblicana che striz­za l'occhio ai suprematisti bianchi), naufragata l'abolizione della rifor­ma sanitaria dell'odiato Obama e, per giunta, sfidato sul piano interna­zionale dall'ineffabile dottor Stranamore di Pyongyang, Trump – a quasi un anno dal suo ingresso alla Casa Bianca – ha fin qui dimostrato di non sapere andare incontro alle esigenze dei suoi elettori, esigenze che aveva promesso di affrontare al grido di “America first”. Se non è un disastro, poco ci manca!

FRAGILITÀ. Tra le tante cose che Trump avrebbe potuto fare per distrarre l'opinione pubblica dalle sue inadempienze, esisteva la possibilità di lanciare al Paese un messaggio chiaro sulla necessità di regolare con maggiore fermezza il facile accesso alla detenzione delle armi in mano ai privati. Nell'angoscia provocata dalla strage di Las Vegas, la più grave della storia moderna americana, era questo il momento per porre un argine a un fenomeno inquietante che non nasce oggi, ma che il terrorismo ha contribuito a riacutizzare in maniera drammatica. Non lo ha fatto. Già in passato molte sono state le battaglie combattute e perse dai precedenti inquilini della Casa Bianca che hanno provato a contenere l'arroganza della lobby delle armi. Un potente gruppo di pressione che infischiandosene dei rischi chiede addirittura leggi ancora più permissive. Ma bisogna insistere. Invece, con quel suo discorso che aggira il nocciolo del problema, il leader repubblicano non ha certo contribuito ad unire la popolazione dietro il progetto di maggiori controlli sulla vendita di fucili e pistole. Quei lunghi minuti di orrore nella capitale dei giochi d'azzardo forse non cambieranno il quadro politico, ma la mancanza di concretezza nel delineare efficaci contromisure evidenzia la fragilità di una presidenza che a sua volta sembra un azzardo.